Storia del Giappone

Dati geografici

In tutta la storia dell’uomo i fattori climatici e ambientali hanno giocato un ruolo primario nell’evoluzione culturale.

In particolare la posizione geografica del Giappone (distante 200 km di mare dalla Corea e circa 800 dalla Cina), ha permesso da un lato un isolamento, dall’altro, un lento apporto di influssi culturali continentali che hanno dato luogo ad una civiltà del tutto singolare, cosa che una maggiore vicinanza al continente non avrebbe potuto permettere poiché le peculiarità sarebbero inevitabilmente state minori.

Il Giappone si trovava al di fuori di tutte le rotte commerciali e ai margini del “mondo antico” costituito dalle grandi civiltà eurasiatiche; questo essere agli “estremi del mondo” ha fatto evolvere autonomamente una specificità ed un’originalità di usi, costumi e pensieri che altre civiltà, più aperte ad influssi e innovazioni, hanno sviluppato di fatto in “compartecipazione” con altre.

Se da un lato è vero che nella mentalità collettiva così formatasi, il Giappone è sempre stato pronto ad imitare ciò che riteneva utile o più avanzato in altre civiltà, d’altro canto è innegabile che la loro civiltà (dall’architettura, agli usi e costumi del vivere quotidiano, dalla scrittura alla lingua parlata, ecc.) è per molti aspetti del tutto originale e singolare.

Da un punto di vista geografico il Giappone ha una superficie poco più vasta di quella dell’Italia ma minore di quella della Francia.

Le quattro isole maggiori sono, partendo da nord, Hokkaido (79.000 kmq circa), Honshu (231.000 kmq), Kyushu (42.000 kmq) e Shikoku (19.000 kmq); in più vi sono oltre 1.000 isole minori (per rendersi meglio conto dell’estensione delle isole si considerino, come riferimento, i 25.700 kmq della Sicilia ed i 70.283 kmq dell’Irlanda).

Il sottosuolo non dispone di risorse minerarie di un certo interesse né di risorse energetiche, il terreno è in genere montuoso: circa il 75% del territorio ha una pendenza superiore al 15% e la superficie atta alle coltivazioni è circa il 15% del totale.

In compenso le coltivazioni sono favorite da un clima temperato e da abbondanti piogge, a ciò l’uomo ha aggiunto un efficiente e diffuso sistema di irrigazione dei campi che ha fatto si che fossero possibili in gran parte del Paese due raccolti all’anno (uno di riso, l’altro di cereali o di ortaggi). La produttività per ettaro risulta così fra le maggiori al mondo in ogni periodo: agli inizi di questo secolo si stimava che la resa per acro fosse in Giappone anche 8-10 volte superiore a quella delle fattorie statunitensi.

Ciò ha permesso da sempre una generale sovrappopolazione del Giappone, e ciò sarà una delle costanti della sua storia.

In genere nei paesi asiatici di clima monsonico, il controllo delle acque era essenziale alla sopravvivenza ed in particolare laddove, come in Giappone, la scarsità di superficie coltivabile costringeva ad un’agricoltura intensiva e non estensiva, i contadini erano costretti ad unirsi in villaggi, spesso molto popolati, ed a collaborare tra loro per riuscire a produrre quanto necessario.

In quasi tutte le società pre-moderne la base contadina costituiva circa l’80-90% della popolazione, ma la mancanza di altre fonti di ricchezza (commerci) per la popolazione non contadina porterà all’instaurarsi di un rapporto molto più autoritario che in occidente fra classe dominante e classe contadina, ma anche ad una maggiore considerazione sociale degli agricoltori.

Le origini

“Izanagi e Izanami che stavano sul ponte galleggiante del Cielo, tennero consiglio dicendo: *Non ci sarà una terra sotto di noi?* Allora spinsero verso il basso la lancia gioiello del Cielo e, cercando a tentoni, trovarono il Mare. L’acqua salsa che gocciolava dalla punta della lancia si coagulò e si trasformò in un’isola che ricevette il nome di Onogoro-jima. Poi le due divinità scesero ad abitare le isole, per diventare marito e moglie e creare altre terre.” [Kojiki]

Così nacque il Giappone secondo il mito.

Nella realtà le cose andarono un po’ diversamente e fino a circa 12.000 anni fa vi erano dei ponti di terra con la Corea, la Cina e la Siberia, attraverso i quali passavano le specie animali asiatiche (dalle antilopi ai lupi, ai mammut, ecc.) che insieme ai cacciatori popolarono il Giappone nel periodo paleolitico.

Successivamente quando la temperatura sul pianeta aumentò facendo così crescere il livello dei mari, il Giappone si trovò isolato dal Continente.

Nell’arco di qualche migliaio di anni, si passerà dalla cultura dell’età della pietra ad una società composta da cacciatori e artigiani (ceramica), poi si giungerà ad una società agricola che conoscerà anche l’uso dei metalli.

Si usa dividere quindi la storia antica del Giappone in:

· periodo Paleolitico (circa 50.000 - 12.000 a.C.)

· periodo Jomon (12.000 - 300 a.C.)

· periodo Yayoi (300 a.C. - 300 d.C.)

Come spesso accade nella storia antica, i passaggi da un periodo ad un altro non sono netti e caratterizzati da eventi certi (invasioni, guerre, ecc.), ma sono più sfumati e dovuti prevalentemente a cause interne, ovvero da gruppi destinati a diventare culturalmente dominanti, che avevano acquisito esperienze e capacità diverse e più evolute, anche per effetto di contatti sporadici con le civiltà continentali.

La civiltà Jomon

Fra il 10.000 a.C. e il 3.000 a.C. il continuo e generale innalzamento della temperatura, aumentando il livello dei mari, provocò in Giappone la separazione fra le due isole maggiori: Hokkaido e Honshu.

Molti animali si estinsero, l’attività dei vulcani diminuì (il Giappone è terra sismica e vulcanica, ancor oggi vi sono oltre 40 vulcani attivi e oltre 1.000 terremoti l’anno) e le condizioni climatiche migliorarono decisamente.

L’uomo imparò a cuocere i cibi in recipienti di argilla, a conservare l’acqua ed i cibi in vasi e quindi incominciò ad allontanarsi per alcuni periodi dalle fonti d’acqua; i villaggi divennero semipermanenti, composti da gruppi di capanne che potevano ospitare 5-6 persone, con un focolare al centro.

La civiltà Jomon prende nome proprio dalla caratteristica ceramica “segnata da una corda” (Jo-mon); infatti i vasi erano prodotti a mano avvolgendo a spirale un salsicciotto d’argilla e poi uniformandolo e premendo dall’esterno delle corde o degli steli di bambù come decorazione ornamentale.

La decorazione Jomon è molto caratteristica e varia a seconda delle isole: nell’isola di Kyushu era prevalentemente a lisca di pesce, nel nord di Honshu e nel sud di Hokkaido si producevano invece vasi decorati a cordicella.

I ritrovamenti di reperti di questa civiltà sono in genere recenti, ma molto ricchi poiché in prossimità degli insediamenti vengono ritrovati gli antichi immondezzai o magazzini interrati, ricchi di reperti che evidenziano quale fosse l’alimentazione, gli usi quotidiani e le pratiche spirituali e funerarie dei giapponesi di quest’epoca.

Archi per cacciare cervi, cinghiali e simili, ami e punte d’arpione, reti da pesca erano i mezzi con cui si procuravano il cibo; i vasi potevano aver funzioni pratiche (conservazione di alimenti sotto sale, cottura di cibi, ecc.) oppure anche per seppellire i defunti. Sono state ritrovate anche statuette antropomorfe, in genere a pezzi e ciò ha fatto supporre che potessero essere state usate in rituali per alleviare il dolore o per guarire una malattia.

Insediamenti Jomon sono stati rinvenuti anche nell’isola di Hokkaido, terra degli Ainu, popolo di razza bianca considerato l’antico abitante di quest’isola (ora gli Ainu sono ridotti a poco più di 10.000 persone).

Il Jomon è stato quindi anche una cultura Ainu, pur non essendo chiaro in che misura la cultura Ainu possa avere influenzato quella giapponese; tuttavia in alcuni importanti termini le somiglianze fra l’idioma Ainu e giapponese è notevole (ad esempio gli dei vengono indicati con il termine “Kamui” in Ainu e “Kami” in giapponese).

La civiltà Yayoi

Intorno al 300 a.C. venne introdotta in Giappone la coltura del riso, nata da molti secoli in Cina ed in Corea (in Cina addirittura nel 5.000 a.C.).

Probabilmente furono piccoli gruppi provenienti dal continente a far conoscere ad alcune popolazioni della civiltà Jomon i metodi di coltivazione del riso. Gradualmente passò la coltivazione dagli acquitrini naturali a delle vere e proprie risaie (dai 100 ai 400 mq) irrigate artificialmente.

Il riso entrò così sistematicamente nell’alimentazione giapponese e permise un notevole incremento demografico fra il 300 a.C. ed il 300 d.C.

La coltivazione del riso rendeva necessaria la cooperazione fra individui sia nella preparazione dei campi, sia nel raccolto, sia per immagazzinare e conservare il prodotto.

I sistemi di irrigazione e drenaggio si fanno via via sempre più complessi, le case (in genere capanne ovali di

6-8 metri circa) sono seminfossate e protette da argini per evitare allagamenti.

Il cibo poteva essere immagazzinato in vasi o in magazzini collettivi, in genere di legno, sopraelevati dal suolo e protetti dai roditori tramite dei dischi di legno posti sui pali che sostenevano il magazzino.

È di questo periodo anche la capacità di forgiare campane in bronzo (dotaku), inizialmente a modello coreano, ma ben presto con modalità di fusione e di decorazione del tutto originali. I disegni più utilizzati erano figure stilizzate di animali, di cacciatori, di contadini, di magazzini di riso o disegni che ricordano l’acqua corrente.

I ritrovamenti di oggetti di bronzo dell’epoca Yayoi, hanno una localizzazione abbastanza precisa: le campane prevalentemente nella parte meridionale dell’isola di Honshu, le punte di lancia e di alabarda soprattutto nelle due isole meridionali di Shikoku e Kyushu e le spade lungo il cosiddetto Mare Interno, ovvero quel tratto di mare compreso fra Honshu, Shikoku e ad ovest Kyushu.

Una caratteristica particolare è che il Giappone conobbe quasi contemporaneamente il ferro ed il bronzo, riservando il primo agli utensili di uso quotidiano ed il secondo per gli oggetti legati al comando o al rito.

I ritrovamenti di depositi di spade e lance fanno supporre che esistessero piccole entità politiche che, vuoi per il controllo della tecnologia della fusione dei metalli, o per quello dell’irrigazione, o per quello della produzione di riso, erano riuscite a dominare localmente altri villaggi.

La ceramica Yayoi (che dà il nome al periodo) è caratterizzata da linee morbide e da superfici levigate, talvolta dipinte con disegni geometrici. La lavorazione non è più manuale (come nel periodo Jomon) ma è eseguita al tornio.

Come abbiamo già accennato, le suddivisioni storiche non sono caratterizzate in questi periodi da avvenimenti netti e definiti che ponendo fine ad un certo stadio di civiltà ne introducono un altro, ma da lenti mutamenti; infatti la tecnologia della lavorazione dei metalli, l’inizio di differenziazione sociale e di consolidamento di piccole civiltà bellicose iniziate nel periodo Yayoi, perdureranno nei secoli evolvendosi e rafforzandosi col tempo.

La cultura Yayoi si diffonderà attraverso il Mare Interno al Giappone centrale e alla più estesa pianura, quella di Kanto, in cui sorge Tokyo.

Il fenomeno che meglio serve a comprendere la lenta ma costante evoluzione dal periodo Yayoi ai successivi è quello della costruzione delle tombe. Dal IV secolo d.C. inizia l’edificazione di tombe costituite da una camera di pietra e coperta da tumuli artificiali formati da riporti di terra. Questi tumuli diventano man mano più importanti: quello dell’Imperatore Nintoku (313-399) è lungo quasi 500 m e circondato da tre cinte di fossati.

Fra i reperti ritrovati intorno alle tombe spesso vi sono bardature e finimenti tipici di popolazioni guerriere ed in particolare fra il V e il VI secolo si ha la prova che il cavallo era usato come cavalcatura di aristocratici e guerrieri; infatti in alcune tombe sono stati ritrovati morsi, staffe e ossa di cavallo.

Ai fianchi di questi tumuli sepolcrali (Kofun) venivano poste delle statuette di argilla (le Haniwa) rappresentanti figure umane o animali o anche semplici oggetti.

Le Haniwa non venivano messe all’interno della tomba ma poste all’esterno, come a guardia del defunto.

Secondo una vecchia teoria invece, le Haniwa, comparse in Giappone il IV secolo, sostituivano probabilmente la sepoltura di creature vive (animali e servitori) che dovevano accompagnare il defunto nell’aldilà. Nel periodo delle grandi tombe vi erano sovente centinaia o migliaia di statuette che circondavano la tomba e le Haniwa divennero perciò una delle principali forme di arte.

La comparsa del cavallo usato da una classe aristocratica e la capacità di disporre di ingenti mezzi per farsi costruire queste grandi tombe e commissionare migliaia di Haniwa, ha fatto ipotizzare a molti storici la possibilità di un’invasione di una popolazione esterna, già avvezza all’arte del cavallo e con indiscutibile istinto guerriero.

Secondo questa teoria, questo popolo proveniva probabilmente dal sud e giunse in Giappone al termine di un processo migratorio secolare.

Altri storici propendono più per una serie di piccole invasioni da parte di popolazioni coreane con cui sicuramente i giapponesi erano in contatto.

Fatto sta che l’arte di cavalcare è stata portata dall’esterno e che fra il V e VI secolo, l’organizzazione socio-politica giapponese muta in modo irreversibile.

L’Epoca Yamato (c. 300-552)

Diverse fonti storiche concordano che fino al regno di Nintoku (313-399) non esisteva in Giappone un unico potere statale esteso mentre fra il 400 e il 600 compare una dinastia sempre più forte nella regione di Yamato, dinastia che sosteneva di discendere dalla dea del Sole e che riesce ad estendere il proprio dominio dalla pianura del Kanto al nord di Kyushu.

Il potere degli Yamato si reggeva su tre fattori principali: i vincoli di sangue, la supremazia militare, le presunte origini divine del loro potere.

Per comprendere cosa significhino i vincoli di sangue è necessario addentrarci in quelli che erano i gruppi sociali in quel periodo.

Il macro-gruppo principale era quello degli Uji, ovvero di grandi gruppi di famiglie imparentate, per vincoli reali o fittizi, con la linea principale di una dinastia tramite un antenato comune (Uji Kami) in genere divinizzato e che riconoscevano l’autorità di un discendente diretto (Uji-no-kami) del capostipite.

Questi Uji (la cui traduzione corrente è “clan”, ovvero gruppi pseudofamiliari) erano il principale elemento di coesione per la classe superiore, e l’alleanza fra i diversi clan segnerà indissolubilmente la storia giapponese.

I principali clan alleati a quello Yamato, i cui appartenenti si fanno discendere direttamente dalla dea del Sole, furono quelli dei Soga, dei Kasuga, dei Mononobe, dei Nakatomi, degli Otomo, dei Kumebe e degli Imibe (gli ultimi cinque vengono ricordati come i cinque clan originari insieme a quello degli Yamato).

Ai capi clan spettavano compiti sia di amministrazione locale, sia quelli relativi al culto delle divinità e degli antenati.

Al di sotto degli Uji, che riguardavano la classe superiore, vi era una suddivisione in gruppi della classe lavoratrice.

Questi gruppi, denominati “Be”, erano composti da lavoratori che si aggregavano per tipo di lavoro e per vincolo all’Uji da cui dipendevano. Avremo così la maggioranza dei Be composta da contadini che producevano riso per sé e per l’Uji da cui dipendevano, ma anche dei Be specializzati in produzione di carta, stoffa, armi, ecc.

Alcuni lavori poi erano di fatto quasi ereditari, tipo quello dello scriba o dello scudiero, mestieri a diretto contatto con la corte dell’Uji di appartenenza.

Al di sotto dei Be, i cui appartenenti erano di fatto semiliberi, dovendo comunque obbedienza all’Uji e dovendo fornire alla corte parte della loro produzione, vi era la classe degli schiavi (Yatsuko), in genere composta da prigionieri di guerra o dai figli di questi. Questa classe non fu mai però molto numerosa (si stima circa il 5% dell’intera popolazione) e non svolse mai una funzione produttiva o sociale importante ma fu usata prevalentemente per i servizi domestici.

Nel periodo in cui il clan degli Yamato si afferma come clan dominante si affermarono comunque in tutto il Giappone degli Uji locali che, tramite alleanze o muovendosi guerra, formarono progressivamente delle coalizioni sempre più ampie e con mire espansionistiche.

Di fatto il clan Yamato, in parte per merito di matrimoni che permettevano l’alleanza e poi l’assimilazione di un altro clan, in parte sfruttando il mito e il prestigio della credenza nella Dea del Sole, in parte utilizzando vie diplomatiche o anche militari (senza l’annientamento del nemico ma piuttosto il suo assorbimento, una volta sconfitto, all’interno della struttura del clan) riuscì a sottomettere gran parte del Giappone, dando vita ad un sistema di governo basato su alleanze, talvolta fragili, fra persone della stessa discendenza.

Le coalizioni, i compromessi, i sottili giochi diplomatici, la politica dei matrimoni, l’ereditarietà del comando anche periferico, furono tutti elementi che caratterizzeranno la vita giapponese nei secoli successivi e che fecero sì che la stirpe degli Yamato continuasse e continui tuttora (è il caso più lungo di dinastia regnante al mondo!) ad esercitare il potere imperiale.

A sostegno dell’autorità politica andò sviluppandosi un potere spirituale, saldamente in mano a chi esercitava il potere politico, che diede una motivazione trascendente all’egemonia del clan dominante.

L’antica religione giapponese, che si è conservata fino ai giorni nostri, è lo Shintoismo.

Lo Shintoismo, che non si basa né su libri sacri né su particolari elaborazioni concettuali, ha alcuni semplici punti fissi:

- la fede nell’influenza benefica o malefica delle potenze soprannaturali presenti nella natura;

- lo stretto rapporto con la collettività di cui si fa parte sia perché si hanno dei Kami in comune che manifestano la loro protezione in questo ambito ristretto, sia perché l’accettazione che il gruppo ha di un individuo è un elemento indispensabile alla propria motivazione di vita.

Il culto è rivolto ai “Kami”, forze spirituali di origine umana (ad esempio un antenato), o naturale (ad esempio lo spirito del riso), che proteggevano e assicuravano la propria benevolenza in un ambito limitato; pertanto uno spirito in base alla sua potenza poteva proteggere una singola casa, un villaggio, una regione o una nazione intera.

I Kami sono onnipresenti e si manifestano in elementi della natura (una roccia, una cascata, una montagna, un bosco, ecc.) o in oggetti simbolici (uno specchio, una pietra preziosa, una statua, ecc.) detti “Shin-tai” (o “corpo dello spirito”).

È chiaro così come lo Shintoismo fu anche, e per alcuni soprattutto, una “religione politica”: il culto dei Kami locali dava una giustificazione religiosa all’esistenza degli Uji ed al collegamento di questi all’Uji principale, quello della dinastia imperiale, ovvero della “stirpe del Sole”.

Questi possedeva i tre oggetti di culto (Matsuri) principali: la spada (che era la prova mitologica del potere degli Yamato e simbolo della virtù guerriera), lo specchio (che rappresentava idealmente il corpo della dea Amaterasu, ovvero la purezza dello spirito) e la collana (che diventò il simbolo più importante poiché attraverso i gioielli che la formavano, lo spirito di Amaterasu penetrava nel corpo di chi la indossava, facendo sì che vi fosse piena armonia fra gli Dei e l’Imperatore).

Pertanto mentre lo specchio venne custodito nel santuario di Ise dedicato ad Amaterasu e la spada in quello di Atsuta, la collana era affidata direttamente all’Imperatore.

Il culto dei Kami era pertanto ben stratificato, si passava dai Kami locali, che potevano proteggere un luogo ben delimitato, ai Kami che esercitavano la loro protezione su tutti gli appartenenti al clan ed ai loro sottomessi (Be), ai Kami di Stato che garantivano pace, prosperità e protezione divina all’intero Paese tramite i loro discendenti diretti dando così una giustificazione trascendente al potere politico.

Il Kojiki e il Nihongi

Il Kojiki viene considerato la prima fonte storica giapponese. Si tratta di un libro scritto da O-na-yasumaro verso l’anno 712 per ordine dell’Imperatore Genmei

(661-721).

Riguarda le origini divine del Giappone e della dinastia imperiale (1° libro) e del dominio degli Yamato nei primi secoli del loro potere (2° e 3° libro).

Come fonte storica è solo parzialmente credibile ma è estremamente interessante come strumento politico per sancire la legittimità del potere del clan imperiale su tutti gli altri Uji.

Il mito della creazione viene così spiegato: due fratelli divini Izanagi e Izanami generarono le isole del Giappone e un certo numero di divinità.

"Allora tutti gli Dei Celesti

ordinarono alle due divinità

Izanagi e Izanami-no-Mikoto

di riparare e consolidare la terra vagante

affidando loro una divina alabarda decorata.

Tenendosi sul Ponte Fluttuante del Cielo,

essi tuffarono l'alabarda divina

agitandola in cerchio nel sale marino

e la ritirarono facendo schioccare l'acqua.

Le gocce salate che ricadevano da essa

si sovrapposero e divennero isole.

Così nacque la Solidificatasi-da-sola."

(Kojiki I: Consolidamento della Terra)

Poi Izanami diede vita al dio del fuoco e morì mentre Izanagi generò la dea del Sole (Amaterasu) e suo fratello il dio della Tempesta (Susa-no-o).

Quest’ultimo litigò con la sorella inondandole fra l’altro i campi di riso e fu così mandato in esilio dagli altri dei a Izumo dove divenne il progenitore di una dinastia celeste che combatté a lungo con la dinastia di cui Amaterasu fu progenitrice.

“Poi Amaterasu diede ordine al suo augusto nipote dicendo: *Questa terra dai 1500 autunni, di canne e belle spighe di riso, è la regione su cui regneranno i miei discendenti. Recati là, o mio nipote, e governala! Va e che la tua dinastia sia prospera e possa durare per sempre come il Cielo e la Terra*” .(Nihongi)

Allora il nipote di Amaterasu, Ninigi, discese sulla Terra portando i tre tesori: uno specchio (simbolo del Sole), la spada sacra che Amaterasu aveva preso a Susa-no-o e che questi a sua volta aveva trovato nella pancia di un serpente da otto teste (spada che poi gli Yamato persero nel corso della battaglia di Dan-no-ura nel 1185) e una collana.

Il Nihongi è invece considerato la prima fonte storica realmente attendibile. Scritta pochi anni dopo il Kojiki dallo stesso O-no-yasumaro e dal principe Toneri riguarda la storia del Giappone dalle origini dell'anno 697, e per tutto quello che riguarda i regni degli imperatori dal V al VII secolo è basata su rigidi criteri cronologici con frequenti comparazioni con la storia continentale (Cina e Corea) e con citazioni tratte da opere storiche cinesi e coreane.

Questi "Annali del Giappone", detti anche Nihon-shoki, scritti in cinese contengono anche 123 poesie in giapponese arcaico molto interessanti da un punto di vista filologico.

Il primo Imperatore

Il racconto mitologico prosegue e ci racconta di come Ninigi discese sulla terra per ordine di Amaterasu portando con sé numerosi guerrieri e servitori, e si stabilì nel Nord dell'Isola di Kyushu.

Due generazioni dopo, suo nipote Kamu Yamato Iware Hiko, attraversa il Mare Interno e stabilisce il suo potere nella regione Yamato, assumendo il titolo di Imperatore con il nome di Jimmu-tenno (Guerriero Divino).

Il suo successore amplia i territori estendendo il potere sul territorio del popolo degli Izumo e incorporandone anche gli dei, onde poter politicamente inglobare meglio questo popolo discendente dal fratello di Amaterasu,

Susa-no-o, lì mandato in esilio dagli altri dei.

Fu pertanto autorizzato il culto di Susa-no-o nel Tempio di Izumo ove fu conservata la famosa spada.

È interessante sottolineare ancora una volta come fu ben diversa in Giappone la politica di inglobamento di popolazioni sconfitte (rispettandone gli dei ed inglobando anche loro in un credere comune) rispetto a quello che vi fu da noi in Occidente (dove si imponeva il proprio dio o le proprio credenze generando così conflitti politico-religiosi che perdurano ancor oggi).

L'Epoca Asuka (552-710)

Verso la fine del V o agli inizi del VI secolo, iniziarono a penetrare in Giappone le dottrine buddiste sia tramite i flussi migratori che venivano dalla Corea, sia tramite i rapporti ufficiali fra Corea (divisa in tre Stati: Paekche, Silla e Mimana) e Giappone.

In base a quanto raccontato nel Nihongi, nell'anno 552 (per altre fonti invece nell'anno 538), il re di Paekche inviò al sovrano di Yamato una statua dorata e numerosi testi buddisti invitandolo ad abbracciare la nuova religione come fonte sia di poteri sovrannaturali sia di saggezza.

Il sovrano di Paekche, che sperava di ottenere l'aiuto giapponese in una guerra contro Silla, fomentò invece una grande rivolta alla corte Yamato.

Quando il sovrano giapponese Kimmei chiamò a corte i consiglieri per decidere se si dovevano adorare le immagini sacre giunte dalla Corea, i clan si divisero (è chiaro che oltre ad un problema religioso era in gioco anche un problema politico di alleanze con Paekche).

Gli Uji più tradizionali e con maggiori poteri da preservare mantenendo i vecchi culti, ovvero il clan Nakatomi (che poi diventerà il clan Fujiwara) che era fra l'altro addetto ad officiare i riti ufficiali shintoisti e il clan Mononobe, generali per diritto ereditario, si opposero al potente e ambizioso clan Soga, che riuscì comunque ad ottenere dall'Imperatore il permesso di adorare la statua dorata di Buddha come Kami particolare del clan.

Un'epidemia fu il pretesto per accusare il clan Soga e il loro Kami che venne quindi gettato in un canale.

Ma nel 587 il clan Soga sconfisse in una dura battaglia il clan Mononobe aprendo così la strada all'introduzione del buddismo in Giappone.

I Soga sostennero fra l'altro che le epidemie e le calamità naturali succedutesi in quegli anni fossero opera di Buddha adirati, ed il buddismo nella sua accezione di religione volta ad armonizzare l'uomo con la natura e a provocare miracolose guarigioni, si fece sempre più spazio all'interno del clan di corte.

Soga-no-umako, capo del clan Soga vittorioso nel 587, riuscì quindi a controllare la corte Yamato facendone assassinare il sovrano (che pure era suo parente) e facendo eleggere una sua nipote Suiko, che affidò il governo ad un altro parente, Shotoko Taishi, il quale favorì al massimo la crescita del buddismo, a tal punto da venir lui stesso venerato nei secoli successivi come reincarnazione di Buddha.

Shotoku Taishi (574-622), nonostante l'appoggio e la parentela con i Soga, difese comunque gli interessi e le prerogative della carica imperiale.

Nel 595 e nel 602 intraprese delle campagne militari per rioccupare Mimana (uno dei tre Stati in cui era suddivisa la Corea) che era stata perduta nel 562.

Le mire espansionistiche giapponesi sulla penisola coreana continueranno poi fino al 663 quando lo Stato di Silla, aiutato dal rinvigorito Impero Cinese, unificò tutta la Corea in un'unica entità territoriale e la flotta cinese respinse quella giapponese nella battaglia di Hakusokinoe, affondandone ben 170 navi e facendo perdere al Giappone 27.000 soldati.

Per quanto riguarda la politica interna, l'opera di Shotoku Taishi fu tutta volta a rendere il sovrano Yamato più saldo nell'esercizio del suo potere elevandone il rango ad Imperatore di tutto il Giappone e basandosi su una corte di amministratori e funzionari stipendiati e con competenze e gerarchie ben definite.

I membri di corte al servizio dell'Imperatore furono suddivisi in dodici classi gerarchiche, i cui gradi erano contraddistinti da un diverso copricapo, con il chiaro compito di limitare l'autonomia dei vecchi capi clan (basati su un potere ereditario all'interno dell'Uji); in questo modo si venne a creare una nuova classe dirigente del Paese direttamente al servizio dell'Imperatore.

Nel 604 Shotoku emanò una sorta di "Costituzione dei 17 articoli” (Ju-shiki-ka-jo-kenpo) ovvero una serie di norme che basandosi su precetti morali rafforzarono la nuova classe dirigente e misero il sovrano al di sopra delle rivalità fra i clan.

Ecco due fra i più significativi articoli:

Art. 1 - L'armonia è da apprezzare e la rinuncia ad un'opposizione sfrenata è da onorare.

Art. 3 - Quando ricevi ordini imperiali non mancare di obbedire scrupolosamente. Il Signore è il Cielo, il Vassallo è la Terra. Il Cielo si stende sopra la Terra, e la Terra lo sorregge.

Una cronaca cinese narra di come l'Imperatore cinese se ne ebbe a male quando un messaggero gli portò il saluto di Shotoku che così iniziava "il saluto del Figlio del Cielo della Terra in cui il sole tramonta"!

Questa famosa frase, probabile "gaffe diplomatica", viene ricordata sia come la prima affermazione documentata di una forte identità e sentimento nazionale, tanto da paragonarsi alla Cina col suo vasto e potente Impero, sia perché il capo Yamato non è più denominato "Okimi" (Grande Re), ma "Tenshi" o "Tenno" (ovvero Sovrano Celeste).

La morte per malattia del principe Shotoku e quella di Soga-no-Umako nel 626 aprirono un periodo di grosse rivalità fra il clan Nakatomi favorevole alla messa in pratica delle riforme accentratrici di Shotoku Taishi e quello dei Soga che guidati da Emishi vi si opponevano.

Il figlio di Emishi, Iruka, fece assassinare Yamashiro, figlio di Shotoku Taishi, nel 643 e due anni dopo il capo del clan Nakatomi-no-kamatari, Naka-no-oe, fece uccidere Iruka e giustiziare Emishi.

Sovrano diventò per poco tempo Kotoku e quindi il titolo di Imperatore venne assunto direttamente da Naka-no-oe con il nome di Tenji, il suo clan cambiò nome e divenne clan Fujiwara, un clan che per secoli dominerà la vita giapponese, mantenendo sempre strette parentele con la dinastia imperiale ed esercitando costantemente una funzione di protezione e controllo sull'operato di corte.

La rottura con il passato divenne ancor più evidente l'anno successivo, nel 646, con la promulgazione della Riforma Taika.

La Riforma Taika aveva lo scopo dichiarato di assicurare all'Imperatore il reale controllo del Paese: venivano nazionalizzate le terre e dopo ogni generazione i campi tornavano di proprietà dello Stato e venivano ridistribuiti ai sudditi (il sovrano Naka diede l'esempio consegnando le sue terre allo Stato!); veniva ordinato un censimento generale della popolazione e delle terre (ogni sei anni), in modo da poterle distribuire alla comunità in modo equo e poterle tassare; si pianificava il sistema di tassazione: il 3% dei prodotti agricoli, 30 giorni di lavoro gratuito all'anno per gli uomini dai 20 ai 60 anni, un contributo aggiuntivo in prodotti non agricoli (cotone, stoffe, ecc.).

In seguito fu ristrutturato completamente il sistema sociale: abolite le vecchie comunità "Be" che appoggiavano e sostentavano gli Uji e fu preso in considerazione come primo elemento della nuova struttura sociale il "casato" (Be), costituito da una famiglia (e relativi rami collaterali), di cui il membro più anziano rispondeva di fronte all'autorità per quanto compiuto dai membri del casato.

Ogni cinque casati vi era un "capo dei cinque casati" regolarmente riconosciuto dall'Autorità, e ogni 50 casati vi era un villaggio (con regolare capo-villaggio che rispondeva all'Autorità) che poteva amministrarsi autonomamente.

Ai membri di corte ed ai funzionari imperiali furono garantiti regolari stipendi in base al rango e l'esenzione da ogni forma di tassazione per tre generazioni.

Ai capi degli Uji furono fatte pressioni affinché accettassero questo nuovo ordinamento sociale ed entrassero, ricevendo titoli e cariche, all'interno dell'amministrazione statale delle loro province, allettati anche dalla sicurezza che un potere statale accentrato e funzionante poteva garantire in termini di stabilità e sicurezza.

Questa ambiziosa Riforma Taika del 646 impiegò quasi sessant'anni per entrare a regime; nel 670 si fece il primo censimento della popolazione e delle terre, nel 668-672 venne aperta la prima Università con quattro facoltà (storia, diritto, matematica, classici cinesi), nel 702 fu promulgato il primo codice di norme civili e generali, nel 708 il governo iniziò a coniare monete, ecc.

Questo periodo finale del VII secolo fu estremamente importante nella storia giapponese perché pose le basi dell'ordinamento politico, amministrativo e sociale del Giappone dei secoli futuri.

L'Epoca Nara (710-784)

L'adozione di un sistema amministrativo-politico copiato dal modello cinese e il consolidamento di questo sistema basato su norme e codici dello scorso secolo da un lato, e dall'altro il diffondersi del buddismo e della cultura cinese, furono gli elementi principali di questo settantennio, che prende il nome di "Epoca Nara".

Fino alla fine del VII secolo la capitale coincideva con il palazzo del sovrano, e dopo la morte di questi il palazzo veniva abbandonato e il successore ne faceva rapidamente costruire uno nuovo.

Già però nel 694 si rese necessario, dato l'aumento dell'apparato burocratico asservito al sovrano, circondare il palazzo da una serie di edifici adibiti ad uffici amministrativi e l'intero complesso non era cosa rapida da ricostruire ad ogni cambio di sovrano; pertanto dal 696 al 710 lo stesso palazzo costruito a Fujiwara-kyo (kyo = capitale) servì a tre Imperatori successivi.

Nel 708 l'Imperatore Gemmyo decise di spostare la capitale in una nuova città Heijo-kyo (vicino all'attuale Nara), costruita secondo i modelli urbanistici cinesi che avevano portato alla realizzazione di Chang'-an (capitale cinese).

La città venne progettata a pianta rettangolare (5x7 km) con strade perpendicolari tra loro, il palazzo imperiale a nord circondato dagli uffici governativi e dalle residenze dei nobili, a sud i templi, i mercati e le casi civili.

In realtà Heijo-kyo non riuscirà mai ad assomigliare a Chang'-an, che contava più di un milione di abitanti, essendo un progetto sovradimensionato per la realtà giapponese: la parte ovest non fu mai costruita e tantomeno la cinta muraria della città.

Heijo-kyo, che arriverà a contare 200.000 abitanti, verrà abbandonata nel 784 quando la capitale verrà nuovamente spostata, dopo essere stata la sede di ben sette Imperatori, fra cui tre donne.

In questi 70 anni si consolidò il sistema amministrativo e di governo basato sui codici dell'era Taiho e sulle loro successive modifiche.

Il Paese fu amministrativamente suddiviso in province, distretti e villaggi ove vigeva una sorta di responsabilità oggettiva degli aderenti: ovvero ognuno rispondeva di un misfatto compiuto da un membro della stessa comunità.

Anche se fu un settantennio di relativa pace non fu però un periodo tranquillo per la classe contadina, vessata da imposte spesso difficili da pagare a causa di scarsi raccolti o falcidiata da una di quelle epidemie di vaiolo che decimavano periodicamente le campagne giapponesi; a ciò si aggiungeva il servizio militare obbligatorio che toglieva forza-lavoro alle campagne.

I vecchi clan e la classe nobile, pur continuando sia formalmente sia di fatto a comandare localmente, traevano il loro sostentamento dalla fedeltà all'Imperatore e dai compiti che questi assegnava loro come funzionari nelle province ove sorvegliavano la regolarità dell'esazione delle imposte, delle quali avevano in parte diritto.

L'aristocrazia di corte divenne ereditaria (a differenza della Cina ove si ricorreva ad esami per scegliere la classe amministrativa e i funzionari della burocrazia) e veniva scelta fra i clan più potenti della regione di Yamato, o imposta dagli stessi clan.

All'interno di questi clan, pur non essendoci più le aspre battaglie del secolo precedente, vi era un continuo scontro di interessi in cui prevaleva il clan Fujiwara, che pur non ottenendo una piena egemonia sugli altri era, al termine dell'Epoca Nara, sicuramente il più potente.

Durante questo secolo il buddismo, sostenuto dalla nobiltà e dalla famiglia imperiale, si diffonde nel Paese; vengono costruiti templi e grandiosi monasteri.

A capo dei monasteri vi erano in genere ancora monaci coreani o cinesi, ma il nuovo clero di base era composto da giapponesi.

Solamente a Nara si potevano contare sette grandi monasteri che di fatto influenzavano anche la vita politica di corte, l'egemonia politica del clero era maggiore tanto più fragile era la posizione dell'Imperatore: resta famoso ad esempio il monaco Dokyo, che sfruttando l'amicizia (o qualcosa di più) con l'Imperatore Shotoku, riuscì a fare una notevole carriera a corte, diventando il principale ispiratore della politica imperiale, finché il clan Fujiwara riuscì ad esiliarlo.

Oltre al buddismo il Giappone assorbì dalla Cina idee e filosofie (il confucianesimo ad esempio), tecnologie diverse nei più svariati campi: dal tessile all'architettura, dalla costruzione dei ponti, alla metallurgia. Ben otto furono le ambascerie ufficiali giapponesi che si recarono in Cina (negli anni 717,733,752, 759, 761, 762, 777, 779).

Il Giappone apprese rapidamente dalla Cina quanto vi era da apprendere nei più svariati campi e lo rielaborò rapidamente sotto forma di arte autonoma già matura: lacche, ricami, stoffe, pitture, bronzi di ottima fattura ne sono un chiaro esempio.

È in questo periodo che nacque la prima letteratura giapponese, non a caso l’Epoca Nara viene ricordata più per gli sviluppi culturali che per quelli politici.

La poesia giapponese nell'Epoca Nara

Tutta la poesia di quest'epoca è raccolta in un'unica grandiosa Antologia, composta da più di 4.500 poesie, detta Manyoshu (Raccolta delle diecimila foglie), il cui compilatore risulta sconosciuto ma di cui i critici letterari negano un'unica paternità propendendo per un insieme raccolto a più mani.

Gli autori di queste poesie sono 561 (più circa 200 anonimi), in prevalenza della zona di Nara e provenienti dalle più svariate classi sociali: troviamo sovrani e pescatori, nobili e artigiani, cortigiani e monaci buddisti.

Le poesie potevano essere lunghe (Choka) o corte (Tanka) composte da cinque versi di 5 -7 -5 - 5 - 7 sillabe.

L'ideale estetico dei poeti di questo periodo è la sincerità (Makoto), ovvero la capacità di manifestare spontaneamente e con semplicità le proprie emozioni sui fatti della vita, sincerità da esprimere attraverso tre canoni: la chiarezza espositiva (Mei), la purezza d'animo (Sei) e la rettitudine (Choku).

Riportiamo una fra le più famose poesie per meglio far comprendere gli ideali poetici del tempo.

Il dialogo della povertà (hinky mondo no uta)

È notte di pioggia

mista a vento,

è notte di neve

mista a pioggia,

per cui fa freddo

e io sono indifeso.

Afferro e sgranocchio

un po' di sale duro

e prendo un sorso

di "sake" di feccie caldo.

Tossisco e starnuto

e mi staso il naso;

mi liscio la barba [rada] e

quasi inesistente e penso:

"eccetto me

nessun altro v'è [che m'uguagli]".

Mi vanto

ma fa freddo, per cui

una coperta di canapa

mi tiro sul capo e

ogni abito e soprabito

che posseggo

metto indosso.

Ma la notte è così fredda!

Padri e madri

di gente povera

più di me

freddo e fame soffriranno,

e le mogli e i figli loro

chiederanno piangenti [vesti e cibo].

(qui il poeta immagina di rivolgersi ad un povero)

[Dì su, tu] di questi tempi

come fai

a tirar avanti la vita?

(risposta)

Il cielo e la terra

son grandi, dicono,

ma per me essi

sembrano ben angusti!

Il sole e la luna

brillano, si dice,

ma per me

essi non han luce.

È per tutti gli uomini

così o per me solo?

Per puro caso

io nacqui uomo,

e, come tutti gli uomini,

venni al mondo, eppure

i miei abiti e soprabiti,

non foderati,

pendono a brandelli

come alghe marine,

e solo stracci

copron le mie spalle.

Nella capanna dove dormo,

una capanna contorta e deforme,

della paglia è sparsa

sulla terra nuda.

Mio padre e mia madre

siedon vicini al mio cuscino,

mia moglie e i figliuoli

ai miei piedi

mi stanno attorno

gemendo e piangendo.

Dal mio fornello

più fumo non esce e

sulla pentola

il ragno la sua tela ha steso;

neppur più ricordiamo

come si cuocia il riso.

Mentre ci lamentiamo,

come l'uccello "nue",

a "tagliar l'estremità

di ciò che corto

è già troppo",

come si dice, ecco

la voce del capo-villaggio

che, bastone alla mano,

fino alla stanza dov'è il letto

viene, e ristà per chiamarmi.

Fino a questo punto

disperata è

la via di questo mondo?

L'Epoca Heian (785-1185)

Nel 784 l'Imperatore Kwanmu decise di spostare la capitale. Quasi sicuramente il motivo determinante fu la volontà di sottrarre la corte all'influenza delle sette buddiste e dei monasteri di Nara: infatti fu impedito a questi di trasferirsi nella nuova capitale.

La nuova capitale

Memori anche della vicenda Dokyo (il monaco buddista che era riuscito a rimettere sul trono l'Imperatrice Koken che aveva abdicato anni prima e che esercitò un notevole potere a corte fino alla morte dell'Imperatrice), la successione al trono seguirà ora una linea prettamente maschile: bisognerà aspettare fino al 1629 per rivedere un'Imperatrice sul trono mentre nell'ultimo settantennio Nara ve ne furono ben tre.

L'Imperatore incaricò un sovrintendente dei Fujiwara di cercare un nuovo sito ove far sorgere la nuova capitale.

Il luogo scelto fu Nagaoka e iniziarono i lavori di costruzione della città, ma intrighi politici culminati con l'assassinio del sovrintendente e calamità naturali interpretate come oscuri presagi, spinsero l'Imperatore ad abbandonare il progetto di Nagaoka capitale e scegliere un nuovo posto.

La nuova sede della corte e del governo fu così Heian (più tardi battezzata Kyoto), che resterà capitale fino al 1868 quando verrà scelta Tokyo.

Heian-kyo sorse su un'ampia pianura delimitata da basse montagne, fu costruita ancora sul modello della capitale cinese Chang'-an, con i palazzi imperiali e governativi a nord e la città suddivisa da strade perpendicolari fra loro che formavano così 1.200 isolati circa.

Le dimensioni complessive della città erano di 4.500 x 5.200 metri. Heian-kyo fu costruita essenzialmente come capitale politica e amministrativa, motivo per cui la quota di popolazione nobile o comunque con funzioni amministrative era circa del 10% del totale: 10.000 persone contro circa 90.000 piccoli funzionari, negozianti, artigiani, soldati, ecc., mentre gli strati più poveri della

popolazione costruivano capanne nelle zone periferiche di Heian, lungo le rive del fiume Kamo, che collegava Heian-kyo al mare (la vecchia capitale Nara non aveva sbocco al mare).

I principali avvenimenti del periodo Heian

Il periodo Heian va dal 794 (anno della fondazione di Heian-kyo) al 1185 (anno in cui Minamoto-no-Yoritomo consoliderà il governo militare a Kamakura).

Si usa suddividerlo in due sottoperiodi: i primi cent'anni sono detti "periodo Konin", i successivi tre secoli "periodo Fujiwara", dal nome della famiglia che controllerà il potere.

Nel periodo Konin continuò il processo di assimilazione della cultura cinese, facilitato da un continuo scambio di ambascerie ed iniziò un lento e costante rinnovamento dei modelli amministrativi giapponesi; questo sarà in parte uno dei motivi per cui nell'arco di un centinaio d'anni si tornerà ad un possesso privato delle terre e quindi alla ricostituzione di agguerriti clan in lotta fra loro.

Il periodo Konin fu caratterizzato dalle lotte contro gli Ainu, che occupavano ancora gran parte dell'isola di Honshu senza tuttavia entrare in conflitto con la corte Yamato.

Il bisogno di nuove terre, dovuto anche all'incremento demografico di quel periodo, spinse la corte a muovere una serie di spedizioni militari contro le popolazioni Ainu che resistettero per decenni tenendo testa anche ad eserciti di 50.000 soldati giapponesi e che vennero sconfitte definitivamente solo nel 876 dai Fujiwara, scacciati dall'isola di Honshu e costretti a rifugiarsi nell'isola di Hokkaido e nelle Curili.

I Fujiwara: l'importanza degli Shoen e delle reggenze

Il vecchio clan Nakatomi ricevette dall'Imperatore nel 669 il nuovo nome Fujiwara (campo dei glicini), in memoria del luogo dove nel 645 Nakatomi-no-Kamatari aveva aiutato il principe Naka-no-Oe ad eliminare i principali esponenti del clan Soga.

I Fujiwara esercitarono sempre una grande influenza politica, essendo di fatto quasi sempre imparentati con l'Imperatore e ricoprendo sempre importanti cariche a corte.

I metodi usati dai Fujiwara furono essenzialmente quattro: i due tradizionali (congiure e matrimoni di interesse) e quelli più moderni degli "Shoen" e delle "reggenze".

Gli Shoen erano le terre che non rientravano fra quelle di proprietà statale, che venivano distribuite ai contadini e sulle quali gravavano le imposte.

In origine le uniche terre escluse dalla "nazionalizzazione" erano quelle assegnate alla famiglia imperiale o ai nobili di corte per meriti acquisiti o per l'importanza delle cariche che ricoprivano, quelle di proprietà dei monasteri e quelle che venivano bonificate da privati.

La proprietà di questi Shoen, o terre private, fu all’inizio trascurabile, ma poi potendola lasciare in eredità cominciò gradatamente ad acquistare maggior peso nell’economia giapponese (anche se agli inizi dell'Epoca Nara, quando vennero nazionalizzate le terre, la proprietà di terre bonificate si poteva mantenere solo per tre generazioni).

Vi erano così tre possibilità per lavorare la terra:

  1. coltivare le terre assegnate dallo Stato e pagare i tributi;

  2. coltivare terre private (di nobili o del clero) e pagare ai proprietari un tributo in genere inferiore a quello statale;

  3. bonificare e coltivare terre proprie libere da imposte.

Inizialmente vi fu una sorta di "corsa alla bonifica", ma ben presto il numero degli Shoen concessi dal governo superò quello degli Shoen ottenuti per bonifica.

Il sistema di censimenti e redistribuzione delle terre di proprietà statale era sicuramente ingegnoso, ma estremamente complesso da mettere in pratica e nel 844 si registra l'ultima redistribuzione.

In seguito questo sistema entrò in una crisi inarrestabile e gli Shoen divennero sempre più numerosi.

I Fujiwara manovravano abilmente a corte assicurando ai vari rami della propria famiglia ampie estensioni di terre.

I contadini o gruppi di contadini proprietari di Shoen, spesso cedevano la proprietà delle terre a nobili o a monasteri in cambio di garanzie di protezione, questi contadini mantenevano i diritti al raccolto e pagavano una tassa al proprietario a cui avevano consegnato il diritto di proprietà delle loro terre.

Così iniziò a formarsi una classe di nuovi piccoli-medi proprietari, i quali se non si sentivano abbastanza forti per proteggere le terre, cedevano a loro volta ad altri (in genere nobili con protezioni a corte) un "diritto alla terra" (Shiki), che dava diritto ad una quota del raccolto.

Gli Shiki erano ereditabili e potevano anche essere venduti o frazionati in più Shiki.

Nobili e monasteri iniziarono così ad accumulare questi "diritti a quote di raccolto".

Gli Shoen che intorno all'anno mille non superavano il 25% delle terre coltivate, arriveranno alla fine dell'epoca Heian a costituire la stragrande maggioranza delle terre.

L'importanza e il potere economico che derivava dagli Shoen e dagli Shiki, appare in tutta evidenza quando durante il tardo periodo Heian, furono emanati decreti imperiali che garantivano ai proprietari degli Shoen ogni diritto sulle loro terre, ivi compreso quello di vietare l'accesso ai funzionari civili.

Quando poi nel XIII secolo anche le cariche pubbliche diventeranno ereditarie, cesserà del tutto l'esistenza di terre pubbliche e l'intero Giappone, altro non sarà che un insieme di Shoen.

L'altra arma politica utilizzata abilmente dai Fujiwara fu quella delle "reggenze".

Persuadendo gli Imperatori ad abdicare e mettendo sul trono un minore, i Fujiwara trovarono il modo di farsi sempre nominare Sessho (reggente di un Imperatore minorenne).

Per primo ci riuscì Fujiwara-no-Yoshifusa (804-872), Gran Ministro dello Stato, che fece eleggere Imperatore un nipote di 9 anni e che fu anche il primo Sessho non appartenente direttamente alla linea ereditaria dell'Imperatore (in precedenza i reggenti di minori erano parenti per linea diretta e non collaterale).

Fujiwara-Mototsune (836-891) riuscì ad essere prima Sessho e quindi a mantenere la carica di reggente anche quando l'Imperatore diventò maggiorenne, ottenendo il titolo di Kampaku (reggente di Imperatore adulto).

Alcuni imperatori che non avevano una madre Fujiwara, tentarono di riaffermare la supremazia imperiale affidando le più importanti cariche a nobili non imparentati con i Fujiwara.

Ma i Fujiwara riuscirono ad essere reggenti (Sessho o Kampaku) ininterrottamente dal 967 al 1068.

La supremazia dei Fujiwara iniziò a diminuire solo dopo il 1050 quando, da un lato le bande guerriere si fecero sempre più agguerrite ricevendo l’appoggio di nobili ostili al clan Fujiwara, dall'altro tre sovrani di madre non Fujiwara abdicarono e ritirandosi in convento continuarono ad esercitare il potere attraverso il figlio messo sul trono (la consuetudine dei Fujiwara era invece che il reggente fosse del ramo materno, ovvero di quello dei Fujiwara).

Questi tre sovrani abdicatari riusciranno a contrastare il potere dei Fujiwara ridando un minimo di autorità alla famiglia imperiale.

La vita di corte nell'Epoca Heian e i Monogatari

La corte imperiale della città di Heian era composta da alcune centinaia di nobili residenti nel palazzo o nelle residenze adiacenti.

In questo microcosmo, lontano dalle preoccupazioni quotidiane del popolo o di chi comunque era a diretto contatto con la classe produttiva, si venne elaborando una raffinata cultura, specialmente letteraria.

Per queste poche centinaia di persone, che comunque direttamente o indirettamente reggevano le sorti del Paese, l'identificazione fra la propria vita e l'arte giunse ai massimi livelli.

La sensibilità artistica si esprimeva nelle mille cose di tutti i giorni: dal rigido protocollo, all'etichetta nei rapporti sociali, dal modo di pettinarsi alla scelta dei colori dei dodici strati di vesti di seta che indossavano le nobildonne, tutto aveva la sua importanza come esteriorità dei propri sentimenti e come espressione di gusti artistici interiorizzati.

I rapporti fra i nobili erano da un lato estremamente codificati, dall'altro estremamente liberi: la poligamia era comunemente accettata fra la classe nobile di Heian fatte salve le convenzioni sociali: dopo il matrimonio, combinato esclusivamente per interesse, la moglie continuava a vivere con i genitori e dopo la nascita di un figlio legittimo era libera di intrattenere rapporti con altri nobili, sposati o ancora celibi, così come il marito, che si limiterà ad andare saltuariamente dalla moglie e dai figli a casa dei suoceri, era libero di avere una o più amanti.

L'amore, o ancor meglio l'arte della seduzione, la gelosia, l'analisi dei propri sentimenti e stati d'animo diventarono così il principale argomento di poesie, diari, racconti e scritti in genere.

La stesura dei testi letterari fu enormemente facilitata dall'introduzione di un nuovo alfabeto sillabico (Kana) che permetteva ai giapponesi di scrivere nella propria lingua con segni molto più facili dei complicati caratteri cinesi.

La narrativa giapponese conobbe così un periodo di eccezionale produttività attraverso i Monogatari (Mono = cosa; Kataru = raccontare), ovvero attraverso romanzi, racconti, novelle, diari, fiabe ecc., in cui secondo i canoni letterari del tempo i sentimenti dovevano prevalere sulla ragione.

I Monogatari si possono suddividere in sei tipologie narrative:

1) Uta-monogatari -raccolta di poesie- molto nota è l'Ise-monogatari (racconti di Ise) che è una raccolta di 125 poesie scritte da Ariwara-no-Narihita, nobile vissuta fra l'825 e l'880, nelle quali descrive con dovizia di particolari usi, costumi ed etichetta in voga fra i nobili del tempo.

2) Denki-monogatari -raccolta di leggende in cui prevalgono elementi sovrannaturali e fantasiosi- famoso è il Taketori-monogatari in cui gli accostamenti fra l'uomo, la natura e il divino sono permeati dalla dottrina buddista del Karma.

3) Rekishi-monogatari -racconti basati su fatti storici più o meno romanzati-

4) Gunki-monogatari -racconti epici basati su guerre e battaglie della storia giapponese-

5) Setsuwa-monogatari -raccolte di fiabe e favolette ad intento moralistico che riguardano per lo più il buddismo, la storia ed i costumi nazionali- il più celebre Setsuwa-monogatari è il Konjaku-monogatari (racconti di “c'era una volta”), 31 libri di racconti in cui ognuno inizia con "Konjaku" (c'era una volta).

6) Shajitsu-monogatari -racconti "realistici"- fra cui il più celebre, pietra miliare della letteratura giapponese, è il Genji-monogatari (storia di Genji) di Murasaki Shikibu, sposa di un Fujiwara nel 999, vedova due anni dopo ed in seguito dama di compagnia della moglie di un Imperatore.

La storia è suddivisa in ben 54 libri e racconta la storia di Genji ("principe splendente"), figlio di un Imperatore, raffinato gentiluomo esperto di arte, musica, pittura e soprattutto nell'arte più apprezzata nella corte della capitale, ovvero l'arte di amare.

Sia i sentimenti dei numerosi personaggi, sia gli aspetti della vita di corte sono dettagliatamente analizzati e danno uno spaccato autentico dei rapporti all'interno della classe aristocratica e della profondità letteraria raggiunta in quell'epoca nell'analizzare i sentimenti umani.

È anche estremamente interessante notare come un terzo dell'opera riguardi il mondo dopo la morte di Genji, che, pur essendo il personaggio principale, è lì a dimostrare come la vita sia transitoria.

Il buddismo e la religione nell'Epoca Heian

La ricerca dei legami fra l'uomo e il soprannaturale fu molto forte nell'Epoca Heian, specialmente all'interno della classe aristocratica.

Cerimonie religiose venivano svolte praticamente ogni giorno fondendo insieme la devozione per i Buddha e il culto dei Kami.

Il buddismo tradizionale si basava sugli insegnamenti (dharma) di Gautama Siddharta (563-483 a.C.) detto Buddha, principe indiano, vissuto nel lusso fino a 29 anni d'età quando, scoperto casualmente che nel mondo vi sono malattia, vecchiaia e morte, rinunciò ai suoi privilegi e vagabondando nell'India giunse all'illuminazione (nirvana), ovvero alla profonda comprensione della natura transitoria dell'uomo iniziando così la sua predicazione.

Il punto centrale dell’elaborazione di Buddha è che gli esseri viventi sono soggetti ad un eterno ciclo di nascite e morti a causa della loro ignoranza, delle loro passioni e dei loro desideri.

Il karma, ovvero l’insieme delle azioni compiute nella propria vita, se si è formato basandosi sull’attaccamento alle cose del mondo, non farà altro che perpetuare questo eterno, sofferente ciclo di nascite/morti/rinascite (samsara).

Per rompere il ciclo del samsara e raggiungere il nirvana bisogna agire come Buddha, riconoscere l’intrinseca illusione della realtà e seguire l’insegnamento di Buddha.

Questo insegnamento (dharma) si basa su “4 nobili Verità”: la vita è dolore, la causa di questo dolore è il desiderio, per eliminare il dolore bisogna eliminare il desiderio, per eliminare il desiderio bisogna seguire il “nobile ottuplice sentiero”.

L’ottuplice sentiero necessario per ottenere un karma positivo e liberarsi dall’eterno ciclo del samsara comprende otto principi morali a cui attenersi nella propria esistenza: retta comprensione, rette intenzioni, retto parlare, retto agire, retto modo di sostentarsi, retto sforzo, retta concentrazione, retto modo di meditare.

L’insegnamento di Buddha si diffuse rapidamente dall’India all’Oriente, pur frammentandosi in diverse scuole di pensiero: la divisione maggiore avvenne nel I secolo a.C. fra il buddismo mahayana (o del “grande carro”) e il buddismo hinayana (o del “piccolo carro”).

Mentre il buddismo hinayana rimase fedele ai principi della vita meditativa per ricercare lo stato del Buddha, il buddismo mahayana rese meno rigidi i precetti diventando così più facilmente religione di massa, adatta anche a chi non aveva la cultura, il tempo e forse, soprattutto, la disponibilità a seguire la dura vita del mendicante alla ricerca dell’illuminazione.

Il buddismo mahayana, promettendo a tutti la possibilità di giungere alla salvezza continuando a fare la vita di tutti i giorni, si diffuse rapidamente creando un vero e proprio clero gerarchizzato ed anche una moltitudine di Buddha e di Bodhisattva da venerare.

I Bodhisattva sono, per il buddismo mahayana, persone dotate di grande saggezza e compassione per il genere umano, alle soglie della buddità, e che operano nel mondo al fine di salvare gli esseri umani.

Il culto dei Bodhisattva, per alcuni molto simile a quello dei Santi nel cristianesimo, e quello dei molteplici Buddha, raggiunsero ben presto una grande popolarità, aiutati dalla commistione che vi fu in Giappone fra buddismo e shintoismo, solo nel 1868 un editto imperiale separerà le due credenze, dove per alcuni i Kami altro non erano se non delle manifestazioni giapponesi di divinità buddiste e per altri era vero esattamente l’opposto, ma senza che ciò generasse lotte religiose o contrasti accesi.

Verso la fine del periodo Heian si diffuse il culto di Buddha Amida, ovvero di un Buddha che prometteva la salvezza nella “Terra Pura del Paradiso Occidentale”.

In altri termini, attraverso la fede in Amida, questi avrebbe fatto rinascere il defunto nel Paradiso della Terra Pura.

Non erano più le azioni dell’uomo in vita a modificare il suo karma, ma era la sola fede in Amida ad essere sufficiente per ottenere il nirvana.

È curioso notare come dal V secolo a.C. al I secolo d.C. non compare in nessun testo buddista il nome di Amida, e come si possa poi paragonare la sua figura di dio misericordioso, a cui spetta il compito di far risorgere o far precipitare agli inferi, alle credenze occidentali in rapido sviluppo in quei secoli in Europa.

L’amidismo si diffuse molto in fretta dapprima all’interno della classe nobile, che fece costruire numerosi templi e statue, e poi fra la classe popolare, attratta dalla facile salvezza ottenibile con la semplice recitazione di sutra e con una fede sincera.

L'ascesa del bushi (guerriero) nell'epoca Heian

Il lento crollo del potere centrale a vantaggio dell'aristocrazia di provincia che con la privatizzazione delle terre (Shoen) rafforzò il proprio potere, aiutò senza dubbio la nascita di bande di guerrieri.

Infatti, le entrate del potere centrale diminuirono a causa del minor gettito fiscale dovuto alle privatizzazione delle terre e il governo non riuscì più a mantenere un esercito efficiente e numeroso.

Inoltre le famiglie nobili di provincia, rafforzate dal possesso degli Shoen, si vollero garantire anche una sicurezza militare arruolando guerrieri e formando vere e proprie truppe private.

I vecchi Uji (clan), che nei periodi precedenti le riforme dell'Epoca Nara avevano dei propri eserciti, erano riusciti a mantenere un certo potere economico anche nell'Epoca Nara e nel primo Heian, ora con il lento sgretolarsi del potere centrale non faranno altro che tornare alla situazione di una volta in cui mantenevano delle milizie private.

Le grandi bande regionali si costituivano intorno alle grandi famiglie a cui capo vi erano sempre più spesso dei Fujiwara, dei Taira o dei Minamoto.

Il X e l'XI secolo videro quindi il crescere e l'affermarsi di tanti poteri locali fintanto che l'aristocrazia provinciale rivolse la propria attenzione alla lotta per il potere che si svolgeva a corte.

Si arriverà così ad un punto di rottura in cui le pressioni a cui era sottoposta la corte da parte di molteplici centri di potere (imperatore abdicatari, rami collaterali dei Fujiwara, clan Taira, clan Minamoto, templi con proprie truppe, ecc.) porteranno la corte a soccombere di fronte alle minacce militari e si completerà il percorso che porterà il bushi ad assumere il comando politico ed economico del Paese.

Si usa suddividere il periodo in cui la classe militare presi il potere in tre Epoche:

1) periodo Kamakura (1185-1338) in cui coesisteranno potere militare, ordine feudale della società e corte imperiale.

2) periodo Muromachi (1338-1615) in cui avverrà il definitivo sopravvento della classe militare sulla corte imperiale.

3) periodo Tokugawa (1615-1868) in cui la classe dei bushi dominerà il Paese attraverso un sistema fortemente accentrato.

I Taira e i Minamoto

Dal 1051 al 1062 il clan Minamoto elimina il clan Abe ed in seguito sconfigge quello dei Kiyowara aumentando il proprio potere in provincia, specialmente nella regione del Kanto, la stessa dei Taira, da dove partivano le spedizione militari verso nord contro gli Ainu. Questo portò le due grandi famiglie ad avere sempre più guerrieri fra i loro uomini.

L’appoggio di questi clan militarizzati veniva sempre più frequentemente chiesto dai Fujiwara o dalle diverse fazioni presenti a corte (in genere quella dell'Imperatore abdicatario e quella legata al governo), finché i due clan si resero conto che era giunto il momento per tentare di conquistare direttamente il potere.

Furono i Taira ad approfittare di un periodo di debolezza della corte, quando nel 1156, il conflitto fra l'Imperatore abdicatario Sotoku e quello regnante Go- Shirakawa fu risolto a favore di quest'ultimo con l'appoggio determinante dei Taira.

Il capo del clan Taira, Kiyomori, riuscì a far nominare Imperatore un suo nipote di due anni, a farsi nominare Gran Ministro, a far eleggere Primo Ministro suo figlio, a far assumere la carica di alti cortigiani a sedici suoi parenti prossimi e ad altri trenta la carica di cortigiani di rango intermedio, numerosi altri parenti diventarono governatori provinciali.

Il clan Fujiwara non poté opporsi a questa presa del potere fatta con gli stessi metodi "legali" (matrimoni, nomine, ecc.) usati da loro secoli prima, poiché non avevano assolutamente una forza militare per competere con i Taira.

Il Palazzo Rokuhara, sede di Kiyomori Taira, divenne pertanto il centro effettivo del potere politico della capitale, il periodo 1160-1185 viene anche ricordato con il nome di "Periodo Rokuhara".

Il clan Minamoto tentò fin dall'inizio (1160) di opporsi a quello dei Taira muovendo guerra sotto il comando di Yoshitomo-no-Minamoto.

Questi venne però sconfitto e ucciso dai Taira.

Secondo i costumi dell'epoca Kiyomori Taira avrebbe dovuto uccidere tutti i figli di Yoshitomo-no-Minamoto per evitare vendette postume, ma al momento di uccidere il figlio Yoritomo, la concubina ed i suoi figli fratellastri di Yoritomo si infatuò della concubina del nemico e, pur di averla, accettò di lasciare in vita sia Yoritomo sia i suoi figli fra i quali Yoshitsune-no-Minamoto.

Yoritomo fu mandato in esilio in una lontana provincia sotto la sorveglianza di un membro dei Taira, Hojo Tokimasa.

La figlia di Hojo si legò però a Yoritomo-no-Minamoto che ottenne l’insperato aiuto di molti membri dei Taira, ostili alla dittatura del clan di Kiyomori Taira, che videro la possibilità di scalzare Kiyomori.

Yoritomo-no-Minamoto riuscì allora ad armare un potente esercito nella regione del Kanto, ove più numerosi erano le famiglie militari, strinse alleanze con altri Minamoto e con quei Taira ostili al clan di Kiyomori, fissò il quartier generale a Kamakura e da lì comandò le operazioni della cosiddetta "Guerra Gempei" che fra il 1180 ed il 1185 vedrà il definitivo scontro fra i Taira ed i Minamoto.

Il comando delle operazioni militari fu assunto da Yoshitsune-no-Minamoto, fratellastro di Yoritomo, che condusse brillanti operazioni di guerra culminate il 25 aprile 1185 nella battaglia navale di Dan-no-Ura, nello stretto di Shimonoseki.

Qui la strategia e il genio militare di Yoshitsune assicurarono la vittoria in poche ore: infatti conscio che le correnti invertivano di direzione nel corso di poche ore, Yoshitsune diede ordine di mirare ai timonieri e non agli arcieri delle navi nemiche, mandandole così alla deriva le imbarcazioni dei Taira e ad annientare sulla spiaggia le forze nemiche.

A Dan-no-Ura, oltre a tutti i capi dei Taira, perì anche il giovane Imperatore Antoku di sette anni, che la vedova di Kiyomori (morto nel 1181) aveva con sé.

Poco tempo dopo Yoritomo, gelosa dei successi e della fama di Yoshitsune, lo perseguiterà e lo costringerà alla morte accusandolo ingiustamente di essere un ribelle.

La Guerra Gempei, il lungo scontro Taira/Minamoto, le epiche battaglie, il gesto compassionevole di Kiyomori Taira che salvò la vita a quelli che vent'anni dopo diventeranno suoi implacabili nemici, la morte dell'Imperatore bambino nella battaglia di Dan-no-Ura, daranno vita ad innumerevoli leggende, poesie, drammi teatrali e resteranno impressi nella memoria storica del Paese, anche perché oltre agli aspetti guerrieri, romantici e pratici di questo scontro, vi era di fatto la fine dell'aristocrazia di corte, rappresentata dai Taira e l'inizio del lungo periodo in cui i guerrieri imporranno il loro potere con la forza.

La tragica storia dei Taira sarà raccontata nell'Heike Monogatari (Heike era un altro nome per indicare i Taira) e raccontata fin nei villaggi più remoti dai cantastorie, in genere liutai ciechi.

Nell'Heike Monogatari appare l'ideale del guerriero: morire per il suo signore, suicidarsi piuttosto che cadere prigioniero e perdere l'onore, continuare la battaglia anche quando è irrimediabilmente persa, ma essere anche sensibile alle emozioni umane specialmente se si è di nobili origini.

Yorimasa (1) chiamò Watanabe Chojitsu Tonau e gli ordinò: "Tagliami la testa!" Ma Tonau non se la sentì poiché il padrone era ancora vivo, si mise a piangere amaramente e rispose: "Come posso fare una cosa simile, mio signore? Ubbidirò solo dopo che ti sarai tolto la vita."

"Capisco" disse Yorimasa. Si girò verso Occidente, congiunse le palme e recitò "Salve o Buddha Amida" dieci volte a voce alta. Poi compose questa poesia:

Come albero fossile

che non ha mai portato fiore

triste è stata la mia vita.

Ancor più triste è metter fine ai miei giorni

senza lasciare alcun frutto.

Dopo aver recitato queste parole, si piantò la punta della spada nella pancia, abbassò il volto fino a terra perché la lama lo trapassasse e morì. (Heike Monogatari)

La tragica fine dell'Imperatore Antoku nella battaglia di Dan-no-Ura viene così descritta nell'Heike Monogatari:

Allora la dama Nii, che ormai aveva deciso di morire, indossò una doppia veste color grigio scuro, come s’addice al lutto; poi, raccogliendo le lunghe gonne, si mise il Sacro Gioiello sotto il braccio e infilò la Sacra Spada nella fascia.

Preso l’Imperatore in braccio, disse: “Anche se sono una donna, non cadrò nelle mani del nemico. Accompagnerò il nostro signore e sovrano. Chi vuole, mi segua”. Poi si avvicinò agilmente al parapetto del vascello.

L’Imperatore aveva allora sette anni, ma sembrava molto più grande. Era un bambino così delizioso che irraggiava luce intorno a se; i suoi lunghi capelli neri pendevano sciolti sulla schiena. Mostrando meraviglia e spavento domandò alla dama Nii: “Dove mi stai portando?”.

La donna si rivolse al giovane sovrano con le guance rigate di lacrime e rispose: “Forse, Vostra Maestà, non sapete di essere rinato sul trono imperiale grazie ai meriti accumulati nelle gite precedenti praticando le Dieci Virtù. Ora però un karma maligno esige la vostra vita. Giratevi verso est e prendete commiato dalla divinità del Grande Tempio di Ise, poi verso ovest e recitate il nembutsu, perché il Buddha Amida e i Santi vengano ad accogliervi nella Terra Pura d’Occidente. Il Giappone è piccolo come un grano di miglio ma ora è una valle di dolore. Sotto le onde c’è una terra pura e felice, un’altra capitale dove non esiste afflizione. Lì condurrò il mio sovrano”.

La dama Nii confortò l’Imperatore e avvolse le sue lunghe chiome nella veste color tortora. Accecato dalle lacrime il sovrano bambino congiunse le bellissime manine. Si voltò dapprima verso est per prendere commiato dalla divinità di Ise, poi verso ovest per ripetere il nembutsu.

La dama Nii lo strinse forte fra le braccia e con le parole: “Nelle profondità del mare è la nostra capitale”, sparì con lui sotto le onde.

(1) Minamoto-no-Yorimasa aveva guidato una rivolta nel 1180 contro i Taira, quando la rivolta fu domata si tolse la vita.

L'Epoca Kamakura (1186-1338)

Yoritomo-no-Minamoto assunse il titolo di "Seii Taishogun", che verrà poi usualmente abbreviato in "Shogun".

Il titolo "Taisho" era usato fin dal IX° secolo ed era un titolo onorifico che l'Imperatore concedeva a famosi condottieri in seguito a sensazionali vittorie, mentre "Seiishi" era un antico grado imperiale.

Con Yoritomo il titolo Shogun diventerà ereditario e appannaggio del dittatore militare che governerà il Paese formalmente in nome dell'Imperatore, che però solo nel 1868 rientrerà in possesso di un potere effettivo.

Yoritomo Minamoto non destituì la corte imperiale ma si guardò bene dal restituirle quel potere che ormai era riuscito a conquistare.

Yoritomo stabilisce il suo quartier generale (chiamato anche "quartier generale nella tenda" o Bakufu) a Kamakura, nel Giappone orientale, da dove muove guerra ai vari feudi che si erano alleati con i Taira.

In ogni provincia venne posto uno Shugo (protettore militare della provincia), fedele alleato dei Minamoto in ogni sottozona un Jito (capo distretto militare incaricato di amministrare la proprietà terriera) che garantiva ordine e entrate fiscali; fu così creata la base finanziaria per mantenere un esercito numeroso ed efficiente.

La "militarizzazione" del territorio tramite il controllo Shogun-shugo-jito soppianta la precedente organizzazione agricola, basata sul rapporto gerarchico proprietario-sovrintendente-fittavolo-bracciante agricolo.

Alla morte di Yoritomo Minamoto, nel 1199, la famiglia Hojo, i cui membri, ex vassalli dei Taira che si erano schierati fin dall'inizio con il giovane Yoritomo aiutandolo e ospitandolo a Izu, riuscì a reprimere una rivolta della nobiltà.

Gli Hojo riorganizzarono la selezione sia dell'Imperatore sia dei funzionari di corte, provvidero alla distribuzione delle terre confiscate, promulgarono uno dei primi codici di leggi feudali (Joei Shikimoka), riuscirono a respingere le invasione dei mongoli di Kublay Kan del 1274 e del 1281, promossero le arti e la letteratura e favorirono l'introduzione del buddismo Zen.

Inizia a maturare una classe di soldati amministratori, fortemente buddisti (della nuova setta Zen in particolare) che, dando gran peso a lealtà, onore, coraggio e sobrietà, costituiscono il Bakufu, il governo militare.

Frugalità, rudezza, sincerità e azione sono alla base del comportamento dei nascenti Samurai (o Bushi). Consci del fatto che l'adempimento ai doveri assunti era possibile tramite una rigida disciplina, nasce il Bushido (codice d'onore), che influenzerà tutta la società giapponese.

Ma lo sforzo per respingere le invasioni mongole fu fatale alla fragile organizzazione socio-economica giapponese, infatti la classe guerriera pretese ed ottenne dalle altri classi sociali una serie di privilegi che andavano dal diritto di non restituire i debiti contratti, al possesso di nuove terre ad uso esclusivo del grande latifondista militare.

In questo sommovimento sociale, in cui la classe dei guerrieri conquista privilegi con la forza derivante dal proprio ruolo, l’Imperatore Godaigo ritenta di far entrare nel gioco politico la Corte, stringendo alleanze con i gruppi contrari al governo militare di Kamakura.

Questo tentativo ebbe un parziale successo nel 1334 quando favorito dal tradimento di Takauji del clan degli Ashikaga (che era stato inviato proprio dal governo di Kamakura contro dei nobili ribelli), l’Imperatore Godaigo riuscì a ristabilire il potere imperiale con sede a Kyoto.

Dopo solo un anno, però, Takauji cacciò Godaigo da Kyoto e fece nominare Imperatore un parente di Godaigo di un ramo familiare rivale instaurando così una dittatura militare che passò alla storia come Periodo Ashikaga.

Gli Ashikaga non avevano però né grandi possedimenti terrieri né forti eserciti propri e dovettero appoggiarsi ai più forti Shugo di provincia.

Epoca Muromachi o Ashikaga (1338-1568)

Per tutta quest'epoca vi furono feroci guerre interne; eserciti grandi e piccoli si fronteggiarono in continuazione. Inizialmente i clan si combatterono suddivisi in due grandi fazioni: la corte meridionale di Godaigo e la corte settentrionale di Takauji, ma ben presto irruppero sulla scena nuovi poteri provinciali: i vari baroni feudali perdevano il contatto e il controllo dei loro feudi e quasi ovunque i subordinati tradivano e si schieravano contro i nobili da cui formalmente dipendevano.

Grandi rivolte contadine (Kyoto e Osaka nel 1485-86) e la guerra di Onin (1467-77) gettarono il Paese nel caos più assoluto, in una sorta di tutti contro tutti ove tradimenti, ricatti e massacri spietati si succederanno senza alcuna interruzione per tutto il XV° e XVI secolo. Il popolo sopravvive a stento.

Non contano più né i titoli nobiliari né l'appoggio dello Shogunato sempre più debole, ma solo i legami fra i signori feudali, il possesso di terre e di castelli solidamente difesi, la capacità militare e l'obbedienza dei sottoposti.

All'inizio del XVI secolo il Giappone è frammentato in circa 250 stati combattenti, ognuno dei quali è comandato da un daimyo (signore) che emanava leggi, amministrava la giustizia, esigeva tributi dai contadini ed era a capo di un esercito in cui i bushi o samurai ne erano le truppe scelte, mentre la fanteria era costituita da uomini armati di lunghe picche, detti ashigaru (uomini agili), con una posizione sociale intermedia fra quella del bushi e quella del contadino.

Questi daimyo, in origine ex Shugo, erano di fatto dei signori feudali i cui feudi avevano perso le caratteristiche originali di provincie e si erano ampliati esclusivamente per merito dei propri eserciti.

Dei circa 250 stati con a capo un daimyo, non tutti erano di ugual estensione: si calcola che una trentina fossero quelli realmente potenti, mentre gli altri duecento si spartivano non di più di 1/3 del territorio.

Pochi di questi daimyo erano di antica origine, per lo più erano potenti famiglie locali che avevano fatto fortuna nel giro di poche generazioni.

Il guerriero delle Epoche Kamakura e Ashikaga (1185-1568)

Il termine Bushi (“uomini che combattono”) veniva usato per indicare i guerrieri nel periodo medievale che vivevano di norma nei loro villaggi, ma che all’occorrenza erano pronti a prendere le armi per il loro signore.

Il termine Samurai invece indicava originariamente quei Bushi che erano “uomini di casa” (gokenin) dello Shogun, mentre dal XVI secolo il termine è passato ad indicare più genericamente i guerrieri che vivevano direttamente nel castello del signore.

Questi guerrieri erano specialisti di arti marziali (bu), cioè della via (michi), dell’arco (kyu) e del cavallo (ba), ma, visto il ruolo dominante che questa classe stava acquistando nella società, era necessario che un élite sapesse scrivere, avere una certa cultura e possedesse capacità amministrative e di governo.

Nacque così l’ideale del guerriero che doveva essere esperto di arti marziali (bu) e possedere doti letterarie e amministrative (bun).

La dura vita del bushi rafforzava il carattere e avvicinava ad una concezione di non attaccamento alla vita, infatti non era nel possesso di cose materiali che il guerriero si realizzava durante la propria vita, ma era sul possesso di doti interiori e morali che poteva fare il suo unico affidamento.

La scelta del fiore del ciliegio come simbolo di purezza del Samurai, che era pronto a dare la vita con la stessa naturalezza con cui al soffiare del vento il ciliegio perdeva i suoi fiori, la spada come simbolo della propria anima, il senso dell’onore su cui fondare la propria vita, posero la classe guerriera al di sopra delle classi produttive e ancor di più al di sopra delle classi dei cortigiani e dei mercanti, giudicati inutili nella logica sociale del bushi.

Il coraggio e la lealtà del guerriero andavano ad esclusivo vantaggio del proprio signore, solo la minaccia di una massiccia invasione straniera, quella dei Mongoli di Kubilai Khan nel 1274, mobilitò bushi e samurai di clan diversi, accomunati sia dalla speranza di guadagnare qualche ricompensa, sia dal fatto di ritenere inammissibile che un esercito straniero tentasse di invadere le loro isole.

A contatto con un esercito straniero i samurai scoprirono nuovi modi di combattere: i primi samurai che avanzarono verso le truppe mongole gridando il proprio nome e aspettando che un cavaliere nemico dicesse il proprio per così iniziare lo scontro, furono circondati e massacrati in modo “non cavalleresco”, ed anche gli archi del nemico riservarono sorprese: i mongoli tiravano frecce leggere a 200 metri di distanza, contro un tiro di poco più di 100 metri degli arcieri giapponesi.

Nell’attacco mongolo del 1281 furono poi usati contro i giapponesi delle bombe a miccia e i samurai conobbero per la prima volta la polvere da sparo.

Ma il contatto con le nuove armi mongole (balestre, archi di lunga gittata, bombe) non portò ad alcuna innovazione né nelle armi né nel modo di combattere dei samurai, che si basava su un coraggio ineguagliabile e sulla possibilità di dare mostra del proprio valore disprezzando la morte.

Il teatro no e i Kyogen

La prima forma compiuta di teatro giapponese viene considerata quella del teatro no, che ebbe una fisionomia definitiva nel XV° secolo e che rappresenta una sorta di dramma musicale in maschera solitamente danzato.

Quasi tutte le opere del teatro no si basano sull’incontro fra il personaggio principale (Shite) e un monaco di passaggio (Waki).

Nel dramma lo Shite trova sollievo nell’incontro con il Waki che lo chiama in scena e, fungendo da tramite fra il pubblico e lo Shite, lo induce ad esporre i propri tormenti dando avvio alle danze inizialmente lente e solenni, accompagnate da flauti, tamburi e dal canto del coro.

Le scene del no sono molto austere, per non distogliere l’attenzione del pubblico con dettagli di scena e permettere di porre attenzione alla gestualità degli attori.

Non vi sono mai donne in scena (come nella tragedia greca) e le parti femminili sono interpretate da uomini.

Spesso poi non vi è alcuna verosimiglianza con la realtà: per esempio un povero può essere vestito con abiti sontuosi.

Gli attori ed in particolare lo Shite, indossano abiti e maschere che ne indicano gli stati d’animo e ne distorcono la voce.

I drammi no durano in genere 45 minuti ed in una sola rappresentazione se ne susseguono di norma cinque, intervallati da una breve farsa classica o kyogen.

Mentre il no crea un mondo irreale ed astratto, il kyogen è una farsa di sapore umoristico sui vari aspetti della vita.

Anche nel kyogen vi è uno Shite ed un Waki (detto Ado) ma il colloquio verte non sulla complessità delle vicende umane, ma su fatti quotidiani mettendone in risalto il lato comico.

Le sette buddiste popolari e lo Zen

Il Giappone conobbe nel XII e XIII secolo un notevole sviluppo del cosiddetto buddismo popolare.

Tra il popolo era diffuso il culto di Buddha Maitreya (il Buddha del futuro) e quello di Buddha Amida.

La pratica religiosa era basata su cerimonie tendenti a placare gli spiriti ed a farsi ben volere da questi, testi e raffigurazioni erano incentrate sul mondo dell’inferno, statue proteggevano i viaggiatori e per spezzare il ciclo delle nascite veniva considerata necessaria l’intercessione di un Buddha.

L’amidismo fu sempre popolare in Giappone (e lo è tuttora) pur dividendosi in due principali sette: quella della Terra Pura e quella della Vera Terra Pura.

La prima sostituiva alla salvezza tramite le opere quella basata sulla fede e sulla ripetizione della frase “Namu Amida butsu” (Buddha Amida ti adoriamo), per questa setta non vi è bisogno di monaci o di celebrazioni religiose, è la semplice fede in Buddha Amida e la ripetizione del nembutsu (invocazione di Buddha) che porterà a rinascere nel paradiso occidentale (quello di Amida).

La seconda setta, quella della Vera Terra Pura, o Vera Setta (Shin shu), che oggi è più diffusa della precedente, era ancora più radicale: era sufficiente anche una sola invocazione sincera per meritarsi la salvezza, inoltre non essendoci distinzione tra monaci e laici era inutile che i monaci continuassero una vita separata e restassero celibi.

La terza delle grandi sette buddiste fu, in ordine di tempo, la Setta del Loto (Hokke) fondata da Nichiren nel 1253.

Questa setta ebbe ed ha tuttora una notevole diffusione, il suo credo si basa nel ritenere la salvezza ottenibile mediante la ripetizione della frase “Namu Mioho Renge Kyo” (Onore al Sutra del Loto) che permette al fedele di realizzare anche nella vita terrena ciò che si prefigge.

È questa l’unica setta che si rifà ad un testo indiano e non cinese ed è sempre stata permeata da un forte nazionalismo: Nichiren esaltò il senso originale e nazionale della sua dottrina e la necessità che dal Giappone si irradiasse in tutto il mondo.

Questa missione del Giappone che doveva portare la vera dottrina nel mondo fu spunto per i nazionalisti di molti secoli dopo che la presero come un’indicazione morale per giustificare un espansionismo culturale, politico e militare.

Alla Setta del Loto si richiamano tuttora alcuni fra i più forti partiti giapponesi, ad esempio il partito Komeito sostenuto dalla Soka Gakkai, potente organizzazione che si richiama alla dottrina di Nichiren.

È già stato detto, ma è curioso notare ancora una volta, come il buddismo giapponese sia in certi versi paragonabile molto di più al cristianesimo che al buddismo indiano: vi è una sola entità superiore che giudica l’uomo dopo la vita e vi sarà inferno o paradiso in base alla sincerità della fede professata in vita; quelli che poi furono i motivi di contrasto e di scisma in Europa fra cattolicesimo romano e luteranesimo (traduzione in lingua volgare dei testi sacri, abolizione del celibato dei preti, comunità religiose laiche) furono anticipati di circa 400 anni dai fondatori dell’amidismo.

Lo Zen, ovvero quella scuola che fece della pratica seduta (zazen) lo strumento per arrivare all’illuminazione personale, giunse in Giappone fra il XII ed il XIII secolo.

Molte altre Scuole di buddismo avevano pratiche meditative ma nessuna aveva fatto della meditazione lo strumento supremo per giungere ad uno stato superiore dell’essere.

Lo Zen si scontrò con quelle dottrine buddiste, in particolare l’amidismo, che si basavano sul “potere di un altro”.

Per i seguaci dello Zen l’illuminazione è possibile “qui ed ora” con lo sforzo individuale e la corretta meditazione che serve a guardare dentro di sé e riconoscere il Buddha, penetrando attraverso gli inganni dei sensi e della mente razionale per cogliere direttamente e improvvisamente la propria intima essenza.

Un atteggiamento consapevole durante la giornata, osservando i propri gesti e il proprio lavoro è d’aiuto per il raggiungimento dell’illuminazione.

A causa dell’ostilità della classe dirigente buddista i monaci zen furono costretti a rendersi indipendenti ed a cercare nuovi protettori, che trovarono nella classe guerriera.

A lungo si è disquisito sui rapporti fra Zen e classe samuraica, di certo è che i guerrieri erano la classe in ascesa che conquistava sempre più peso politico e che le loro esigenze spirituali ben si incontravano con gli insegnamenti zen, basati non su pratiche religiose ma su una ricerca interiore e su un rigore meditativo che poggiava su una ferrea autodisciplina fisica e morale.

Dalla dottrina Zen del Wu-wei (non-azione), di derivazione taoista, che invita a non contrastare una forza avversa, ma ad assecondarla fino a farla ritorcere contro se stessa, deriveranno in seguito gli insegnamenti base del Ju-jutsu.

Il medioevo giapponese, a fianco della diffusione del buddismo nelle sue varie e composite manifestazioni e correnti, vide anche la continuazione del culto dei Kami shintoisti e di divinità come Hachiman, il dio protettore dei guerrieri.

Come già detto, le varie credenze religiose non erano né in lotta né in antitesi fra loro (come da noi in occidente) ma si mescolavano e confondevano tra loro: nulla vietava di praticare Zen, di venerare parecchi Buddha, di riverire i Kami ed invocarne la protezione, di tener conto dell’eterno alternarsi in ogni cosa dell’yin e yang, di osservare diversi tabù e di provare interesse per i problemi morali e politici introdotti dal confucianesimo cinese, ogni modo di pensare non era alternativo ma complementare agli altri.

I primi contatti con gli europei

Fra il 1500 ed il 1550 il Portogallo si inserì prepotentemente nei commerci con l’Oriente, favorito dalla decadenza della dinastia cinese e dalla frammentazione politica del Giappone.

I primi portoghesi sbarcarono sull’isola di Tagenashima (a sud di Kyushu) nel 1543 e nel giro di pochi anni instaurarono regolari commerci sostituendosi ai mercanti cinesi.

Da un punto di vista commerciale gli scambi si basavano prevalentemente su argento e rame giapponese contro armi da fuoco, tabacco, tessuti di lana, ecc.

Da un punto di vista culturale gli europei portarono tre grandi novità:

  • le armi da fuoco;

  • la possibilità di arricchirsi per mezzo del commercio e non più solo delle terre;

  • il cristianesimo;

I giapponesi, che erano già venuti in contatto con la polvere da sparo al tempo dei tentativi di invasione mongola del XIII secolo, non conoscevano però né i fucili né i cannoni ed in breve tempo si impossessarono della tecnologia necessaria: nel 1558 i primi daimyo possedevano cannoni e nel 1575 Nobunaga aveva al suo servizio 3000 soldati armati di fucile.

La possibilità di arricchirsi con il commercio sconvolse il potere dei daimyo, specialmente nell’isola di Kyushu dove i contatti con gli europei permisero ad alcuni daimyo di diventare molto potenti pur avendo uno scarso territorio.

Il cristianesimo sbarcò in Giappone con i gesuiti ed in particolare nel 1549 con Francesco Saverio, che pur fermandosi solo due anni indicherà la strada da seguire per “evangelizzare” il Giappone: non lo spirito di crociata ma una lenta e tenace penetrazione nel Paese, in particolare verso la classe dei daimyo la cui conversione avrebbe favorito la diffusione del cristianesimo.

Così fecero i missionari con risultati sorprendenti: nel 1580 si contavano 150.000 convertiti con soli 85 missionari presenti nel Paese, vent’anni dopo i cristiani erano 300.000 (con una percentuale sulla popolazione superiore a quella del 1990).

Il cristianesimo si diffuse favorito anche dal desiderio di commercio dei daimyo che necessitavano del tramite dei gesuiti per contattare i mercanti portoghesi per l’acquisto di armi.

Lo stato di malessere popolare verso il clero buddista particolarmente corrotto e non in grado di reggere il confronto con il coraggio ed la dedizione dimostrata dai missionari occidentali favorì poi la diffusione del cristianesimo a livello popolare, laddove il daimyo si convertiva.

Nel 1582 una missione giapponese arrivò a Roma per conoscere il Papa e nel 1613 una seconda ambasceria di ben 60 persone andò prima in Messico, poi in Spagna e infine a Roma per motivi commerciali.

Anche se gli storici europei definiscono addirittura il periodo 1540/1640 come il “secolo cristiano” non bisogna assolutamente esagerare l’importanza del cristianesimo in Giappone: esso ha riguardato meno del 2% della popolazione.

E’ stata sicuramente ben maggiore l’importanza in quel secolo dell’introduzione delle armi da fuoco.

Il contatto coi portoghesi e gli spagnoli produsse anche duraturi effetti nella vita quotidiana: furono introdotti in Giappone il pane (“pan” in giapponese), i dolci cotti al forno, la tecnica della frittura (di cui poi i giapponesi faranno largo uso per friggere le verdure) e il tabacco.

Il periodo Momoyama (1568-1600)

Dal 1478 al 1578 il Giappone affrontò un periodo detto “Guerra dei Cento Anni”, in cui i daimyo non furono più dei semplici feudatari ma dei veri e propri sovrani locali con dei eserciti propri che si affrontavano in un susseguirsi di battaglie, alleanze, tradimenti, ma senza che alcun daimyo riuscisse ad imporsi ad altri a tal punto da allargare il proprio potere su una regione più vasta e tentare la conquista della capitale, dove era insediata una fatiscente corte imperiale.

Solo verso la metà del XVI° secolo alcuni daimyo riuscirono ad ingrandire i loro domini e a costituire grosse coalizioni con potenti eserciti; si intravedeva così la possibilità reale di una presa del potere da parte di qualcuno che riunificasse un Paese scisso in oltre 200 staterelli rivendicando la legittimità del suo operato.

I daimyo più vicini a Kyoto tentarono di conquistare la capitale e Imagawa Yoshimoto marciò nel 1560 alla testa di un esercito di 25.000 uomini attraversando il territorio di Oda Nobunaga per raggiungere la capitale.

Nobunaga, discendente dei Taira, era un giovane feudatario ventiseienne con un piccolo territorio situato però in una posizione strategica.

Nobunaga sbarrò la strada a Imagawa e con soli 2.000 uomini distrusse l’esercito nemico, attaccandolo di sorpresa in una gola fra le montagne.

Fra il feudo di Nobunaga e Kyoto vi erano due territori: quello di Omi (al cui daimyo Nobunaga diede una sorella in sposa) e quello di Mino la cui fortezza fu conquistata militarmente nel 1567 dal capitano Toyotomi Hideyoshi al servizio di Nobunaga.

Così nel 1568 Oda Nobunaga al comando di un esercito di 30.000 uomini entrò nella capitale conquistandola rapidamente, trovò il pretesto politico per restaurare uno Shogun Ashikawa che verrà ben presto destituito, facendo così terminare definitivamente lo Shogunato degli Ashikawa.

Da Kyoto conquistata Nobunaga iniziò la difficile opera di riunificazione del Giappone: intorno a Kyoto infatti non vi erano che nemici.

I principali erano le vicine coalizioni di daimyo Asai e Asakura che Oda Nobunaga sconfiggerà nel 1573 e il potente esercito del daimyo Katuyori Takeda che Nobunaga annienterà nel 1575, alleandosi a Tokugawa Ieyasu e facendo largo uso di armi da fuoco.

I 3.000 fucilieri di Nobunaga erano disposti su tre file che sparavano a turno e ricaricavano le armi in 30 secondi, l’esercito di Takeda composto da bushi armati di spada e picche si trovò così sotto un fuoco di 1.000 proiettili ogni 10 secondi.

L’altro grande nemico di Nobunaga erano le milizie delle comunità buddiste.

Molti monasteri erano potenti e costruiti in posizione strategica spesso ottimamente armati (anche con migliaia di fucili).

La guerra di Oda Nobunaga contro le sette buddiste e i loro eserciti fu dura e spietata: nel 1571 distrusse 3.000 edifici religiosi massacrando migliaia di monaci e laici, nel 1574 a Nagashima al termine di un lungo assedio bruciò 20.000 persone.

Nel 1576 fece erigere il grande castello di Azuchi sulle rive di un lago, una costruzione massiccia di sette piani circondato da mura e fortini.

I daimyo che si sottomettevano pacificamente erano considerati alleati, i loro eserciti mandati a combattere per valutarne la lealtà e il loro comandante ricompensato con terre o castelli strappati al nemico.

Nel 1576 Nobunaga cominciò a disarmare i contadini dei suoi feudi, iniziando così l’opera di separazione fra la classe dei guerrieri e le classi produttive, i cui ruoli si erano praticamente confusi a causa degli eventi degli ultimi secoli.

Nel 1577 con 1/3 del Giappone sotto il proprio dominio, Nobunaga mosse guerra al clan Mori, daimyo che avevano sotto di sé il controllo di 12 province all’estremità dell’isola di Honshu, affidando le sue truppe al proprio generale migliore, Hideyoshi.

Questi incontrerà più difficoltà del previsto e nel 1582 chiederà rinforzi.

Mentre Nobunaga stava muovendo in aiuto di Hideyoshi viene assassinato insieme al figlio maggiore, da un generale ribelle, un certo Akechi Mitsuhide.

Hideyoshi allora abbandonò il fronte e tornò nella capitale uccidendo Akechi e i suoi uomini.

I principali vassalli di Nobunaga si radunarono e nominarono un consiglio di quattro reggenti, fra cui Hideyoshi, da affiancare con funzioni di tutore al giovane nipote di Nobunaga nominato suo erede.

In meno di tre anni Hideyoshi eliminò gli altri tre tutori e controllando pienamente Kyoto dal suo nuovo quartier generale in un castello di Osaka, ottenne il titolo di Kampaku (Reggente Imperiale), che dava legittimità al suo potere.

Nel 1585 strinse alleanza con Ieyasu Tokugawa facendogli sposare una sorellastra e ottenne l’assenso di tutti i vassalli dei territori dominati in precedenza da Nobunaga.

Era così pronto per proseguire l’opera di unificazione e conquista del Giappone: nel 1585 invase l’isola di Shikoku con un esercito di 200.000 uomini, nel 1587 conquistò l’isola di Kyushu con un esercito ancora più numeroso.

Restava ancora da conquistare la parte orientale e settentrionale dell’isola maggiore (Honshu) che era sotto il dominio degli Hojo, ma che era una terra scarsamente produttiva, anche se molto estesa.

Nel 1590 alla guida di un esercito di 200.000 uomini bene armati mosse dalla pianura del Kanto verso i feudi degli Hojo, che capitoleranno dopo due mesi di aspre battaglie e assedi ai castelli.

I pochi daimyo del nord dell’isola giurarono obbedienza a Hideyoshi che era riuscito così ad unificare Honshu, Shikoku e Kyushu.

Il territorio era suddiviso in feudi legati fra loro da alleanze e il capo di questa lega di daimyo, Hideyoshi, era considerato il capo della nazione.

Dal punto di vista sociale Hideyoshi promosse tre basilari riforme (sistema di tassazione, smilitarizzazione delle masse, ordinamento sociale), che produrranno effetti fondamentali nella storia giapponese.

Nel 1585 ordinò la riforma del catasto censendo le famiglie coltivatrici e stabilendo che la tassazione della terra (2/3 del raccolto stimato) fosse misurata in base alla “capacità produttiva in riso”, anche se i campi non erano coltivati a riso.

L’unità di misura era il koku (circa 150 kg.) di riso ovvero la quantità di riso reputata necessaria per il sostentamento di un uomo per un anno.

Un daimyo doveva possedere, per essere considerato tale, terre tassate per almeno 10.000 koku di riso.

La maggioranza dei daimyo era tassata per meno di 100.000 koku, ma vi erano grossi feudatari con oltre 1.000.000 di koku; i maggiori erano Hideyoshi con oltre 2.000.000 di koku e Tokugawa con 2.557.000 koku (cioè 383.550 tonnellate di riso).

Il censimento delle terre e la loro valutazione ai fini fiscali con il sistema della capacità produttiva annuale stimata in riso resterà in vigore fino al 1872.

Anche i samurai o bushi erano iscritti nei registri dei daimyo con l’indicazione del feudo che doveva stipendiarli.

La seconda riforma, nota come “caccia alle spade”, fu emanata per decreto nel 1588: “Agli abitanti delle varie provincie è rigorosamente fatto divieto di possedere spade, archi, lance, armi da fuoco o altri tipi di armi”.

Si separava così definitivamente la classe militare da quella produttiva dopo secoli in cui a causa delle continue guerre il Giappone era praticamente costituito da un popolo in armi, anche se con armi e capacità militari diverse.

In questo modo si cercò di evitare a priori le possibilità di ribellioni contadine armate al momento dell’esazione dei tributi.

La terza riforma fu quella del 1590, con l’ ”Editto delle tre clausole” si stabilì:

  1. i contadini non potevano abbandonare il loro villaggio per nessun motivo;

  2. ai bushi era fatto divieto di abbandonare il loro padrone per un altro o di tornare al villaggio di origine;

  3. se un daimyo si trasferiva i bushi dovevano seguirlo.

Furono così gettate le basi del cosiddetto “feudalesimo burocratico” dei secoli successivi: i contadini furono disarmati, fu loro impedita la mobilità sociale e legati indissolubilmente alla terra, i samurai furono vincolati al loro signore e non più al loro territorio, il controllo feudale fu reso incombente a tutti i livelli poiché vennero fissati dei gumi (raggruppamenti di cinque famiglie per i militari e di dieci per i civili) ove vigeva il principio della responsabilità collettiva in caso di mancata denuncia: se un membro di un gumi non avesse denunciato un’infrazione avvenuta all’interno del gruppo, tutto il gruppo ne sarebbe stato responsabile e duramente punito.

Hideyoshi aveva anche mire espansionistiche verso Corea e Cina.

Nel 1591 chiese alla Corea il libero transito sul suo territorio per arrivare in Cina e sottomettere la dinastia imperiale cinese.

Ovviamente la Corea non lo concesse e nel 1592 200.000 soldati giapponesi la invasero scontrandosi contro un’inaspettata resistenza popolare e contro l’esercito coreano rafforzato da contingenti cinesi.

Si pervenne così ad una sorta di “vittoria negoziata”: le cui trattative durarono qualche anno e si conclusero con un irrigidimento cinese che determinò nel 1597/98 una seconda invasione giapponese.

La morte di Hideyoshi nel 1598 pose fine ai maldestri tentativi di invadere il continente.

Il successore legittimo di Hideyoshi era ancora un bambino ed i cinque più potenti daimyo (Tokugawa, Maeda, Mori, Ukita, Uesugi) costituirono un Consiglio di reggenza a Osaka (sede del castello di Hideyoshi), giurando di fare da tutori a Hideyori Hideyoshi fino alla sua maggiore età e di non alterare lo status quo stringendo alleanze all’insaputa degli altri membri.

Ma questo patto non doveva durare a lungo e i contrasti scoppiarono ben presto fra i “vassalli della casa”, guidati da Ishida Mitsunari, e i grandi signori guidati da Tokugawa che era il più potente dei cinque daimyo del Consiglio.

Questi nei primi mesi del 1600 ruppe l’accordo, lasciò Osaka, invitando i daimyo alleati a schierarsi per lui, spostò le sue truppe nel Kanto per fronteggiare una ribellione locale.

Ishida Mitsunari prese l’occasione al volo, organizzò gli eserciti dei daimyo del Giappone occidentale per contrapporsi a Tokugawa, ma questa “alleanza occidentale” era fragile e mal diretta, ed al suo interno alcuni daimyo facevano il doppio gioco.

La decisiva battaglia si svolse a Sekigahara il 21 ottobre 1600 e fu uno scontro che passò alla storia.

La battaglia iniziò alle 8 del mattino con 160.000 soldati in campo, nel momento critico vaste sezioni degli eserciti della “alleanza occidentale” non si mossero e quelle del daimyo Kobayakawa passarono dalla parte di Tokugawa; alle 14 la battaglia era conclusa con un’immane carneficina.

Alla fine di ottobre 1600 Tokugawa entrava trionfante a Osaka.

Ai daimyo sconfitti vennero confiscate terre per complessivi 7.572.000 koku di riso (ovvero per una produzione annua di quasi 500.000 tonnellate di riso) e una buona parte andò ad ingrandire i possedimenti di Ieyasu Tokugawa, gli altri furono distribuiti ai vassalli fedeli, ben 87 casate di daimyo sconfitti si estinsero.

A Hideyori Hideyoshi restò la fortezza di Osaka e terre per 650.000 koku.

Nel 1603 Tokugawa si fece nominare Shogun dall’Imperatore, cosa che né Nobunaga né Hideyoshi avevano potuto fare.

Tokugawa, in quanto discendente di uno dei tanti rami dei Minamoto, poteva invece legittimamente rivendicare tale titolo.

Con questa carica Ieyasu Tokugawa creò di fatto un governo militare indipendente dalla corte.

Per assicurare alla propria dinastia la continuità del titolo, Tokugawa abdicò due anni dopo a favore del figlio Hidetada che divenne così Shogun mentre Ieyasu assunse il titolo di Ogosho (“Shogun a riposo”) continuando a dirigere il Paese come prima.

Ieyasu Tokugawa non era però riuscito a collocare daimyo di provata fede nei territori occidentali in cui era ancora vivo il ricordo di Toyotomi Hideyoshi, la fedeltà giurata al figlio Hideyori e la sconfitta di Sekigahara.

Nel 1614 si arrivò alla definitiva resa dei conti fra i fedeli di Hideyori Hideyoshi, radunati nella fortezza di Osaka, e l’esercito di Ieyasu Tokugawa.

Nell’inverno 1614 il castello fu cinto d’assedio e dopo due mesi Tokugawa aveva perso 35.000 dei 180.000 soldati assedianti mentre dall’interno Hideyori Hideyoshi contava ancora su una gran parte dei suoi 90.000 uomini, per lo più irriducibili samurai rimasti senza padrone all’indomani della battaglia di Sekigahara.

Nel gennaio 1615 Ieyasu Tokugawa chiese e ottenne un accordo di pace fra le cui clausole vi era però l’obbligo da parte di Hideyori Hideyoshi di colmare i fossati pieni d’acqua che circondavano il castello.

Cinque mesi dopo, nell’estate 1615, le truppe di Ieyasu Tokugawa riattaccarono il castello che, non più difeso dai canali d’acqua, capitolò in modo drammatico: tutti i difensori della fortezza furono uccisi, Hideyori Hideyoshi e sua madre si suicidarono e lo stesso Ieyasu Tokugawa fu gravemente ferito.

La battaglia di Osaka fu l’ultima grande battaglia del Giappone feudale.

Alla sua morte, l’anno successivo, Tokugawa lasciava un Giappone unificato che non conoscerà più guerre per oltre 250 anni, una stabilità interna che verrà scossa solo nella seconda metà del XIX° secolo, nel contempo il Giappone si chiuse alle influenze esterne isolandosi dal mondo.

Il periodo Edo (1600-1868)

Al sistema politico dei Tokugawa gli storici daranno il nome di “baku-han”, indicando in ciò che i rapporti di tipo feudale fra lo Shogunato (bakofu), come autorità centrale, e i feudi dei daimyo (“han” o “ryo”) come autorità regionali, erano alla base del sistema politico-economico del Paese.

Fra il 1600 ed il 1651 vennero ridistribuiti oltre 10.000.000 di koku sui 25.000.000 che si stimavano esservi in tutto il Giappone.

Questi koku non vennero confiscati con la forza militare come era stato fino a poco tempo prima, ma per motivi disciplinari (6.480.000 koku) o perché i daimyo non avevano eredi diretti; in questo modo altre 24 casate di daimyo furono eliminate.

I possedimenti diretti dello Shogun (tenryo) passeranno da 2.000.000 di koku che i Tokugawa avevano all’epoca di Hideyoshi ai 6.800.000 koku nel 1650; il daimyo esterno più potente (Maeda) possedeva meno di 1/5 delle terre dei Tokugawa che fra l’altro comprendevano le principali città, porti e miniere del Paese.

I rapporti gerarchici fra i daimyo e lo Shogun erano ben stabiliti: vi erano 23 casate collaterali (shimpan) che avevano proprietà per 2.600.000 koku, capeggiate da “Tre case” (sanke) che discendendo direttamente da Ieyasu Tokugawa avevano diritto a dare un successore allo Shogunato se la linea principale di discendenza si fosse estinta; dopo i shimpan venivano 145 casate (Fudai), che avevano ricevuto il titolo di daimyo da Ieyasu Tokugawa o da un suo successore, queste casate possedevano terre per 6.700.000 koku; infine venivano le 97 casate (Tozama) di daimyo di nomina anteriore all’avvento dei Tokugawa e quindi meno affidabili che possedevano circa 9,8 milioni di koku.

La collocazione dei possedimenti dei shimpan (23 casate collaterali), dei Fudai (145 casate fedeli) e Tozama (97 vecchie casate) fu un grande problema strategico per lo Shogunato che cercò di relegare i Tozama nelle zone periferiche del Giappone inframezzandoli con i Fudai onde prevenire alleanze e unioni fra i Tozama, alcuni dei quali come gli Shimazu e i Mori terranno viva una tradizione anti-Tokugawa, che esploderà dopo il 1854.

Nei 264 anni in cui i Tokugawa rimasero al potere e in cui si succedettero 15 Shogun, l’Imperatore riacquistò un certo prestigio, anche se gli fu imposto di non occuparsi di politica.

La corte imperiale, composta dall’Imperatore, dalla sua famiglia e da circa 140 famiglie nobili, viveva nel Palazzo Imperiale di Kyoto dove aveva un ruolo esclusivamente di autorità tradizionale avendo ormai dal XIV° secolo perso ogni funzione politica nel Paese.

I Tokugawa, per evitare un possibile ritorno alla politica dell’Imperatore in tempo di pace, imposero nel 1615 un decreto per la corte in cui si stabiliva che l’Imperatore avrebbe dovuto dedicarsi allo studio e alla poesia e non alle attività politiche e che le nomine imperiali dovessero avere il preventivo assenso dello Shogun.

L’Imperatore Go-Mizunoo, che aveva sposato una nipote di Ieyasu Tokugawa, abdicò in segno di protesta contro il controllo dello Shogunato sulla Casa Imperiale ma non riuscì in alcun modo ad opporsi al ruolo che lo Shogunato stava imponendo alla dinastia imperiale.

Lo Shogunato emanò anche precise norme per regolamentare gli ordini religiosi, altro tradizionale centro di potere del Giappone medievale.

Vi furono importanti contributi finanziari alle grandi sette che appoggiavano lo Shogun, si stabilirono rigidi rapporti gerarchici fra i templi di una stessa setta e quindi una responsabilità per il tempio principale che doveva “sorvegliare” gli altri.

Al popolo fu imposto l’obbligo di registrarsi nei templi, a questi ultimi venivano così demandati i compiti di un’anagrafe; per trasferirsi i cittadini necessitavano di un certificato del tempio di residenza.

L’iscrizione ai tempi coincise con la messa al bando del cristianesimo (nel 1616), infatti all’atto dell’iscrizione veniva rilasciato un certificato che attestava la non fede cristiana e quindi metteva al sicuro da possibili accuse.

Alla base delle persecuzioni ai cristiani vi erano motivazioni diverse: da un lato la preoccupazione che i daimyo cristiani (in genere Tozama ma anche daimyo vicini allo Shogun) potessero allearsi tra loro, dall’altro lato il sospetto che i missionari potessero essere l’avanguardia di una possibile intrusione economica delle potenze europee, e i dissidi fra spagnoli e portoghesi e fra gesuiti, francescani e domenicani confermarono agli occhi dello Shogun questa ipotesi.

Nel 1637 i contadini delle regioni ad est di Nagasaki, in maggior parte cristiani esasperati dal carico fiscale imposto dal daimyo del luogo che puniva con la morte gli insolventi, sotto il comando di ronin già samurai di Hideyori conquistarono il castello di Hara e innalzando insegne cristiane tennero testa per quattro mesi alle truppe dello Shogun fin quando vennero annientati e il cristianesimo definitivamente estirpato dalle isole giapponesi.

Nel 1639 lo Shogun emanò il decreto di chiusura (sakoku) con l’Occidente, vietando agli stranieri di mettere piede in Giappone e ai giapponesi di recarsi all’estero.

Il castello dello Shogun, a Edo, diventò il vero centro di potere giapponese.

All’interno di questa fortezza inespugnabile diversi daimyo costruirono le proprie residenze, e la città che si formò intorno a questo insieme di residenze ufficiali e caserme diventò la più grande del Paese contando alla fine del XVIII secolo oltre 500.000 abitanti.

I 15 Shogun che si succedettero dal 1600 al 1868 non furono nell’insieme personalità di grande rilievo politico: spesso lasciarono l’amministrazione del Paese completamente in mano all’apparato burocratico guidato da primi ministri, sovente però anche loro non particolarmente acuti.

Fra i comportamenti insensati vale la pena di ricordare l’obbligo che lo Shogun impose nel 1651 ai suoi servitori di uccidersi alla sua morte per seguirlo e servirlo nell’aldilà.

Lo Shogun Tsunayoshi (1643-1709), convinto da un monaco che la sua sterilità dipendesse dall’aver maltrattato gli animali in una delle vite precedenti, diventò un tenace protettore degli animali ed essendo nato nell’anno del cane (secondo il calendario cinese), fece costruire un canile a Edo di oltre 80.000 mq, fece gettare in prigione migliaia di giapponesi rei di aver maltrattato cani, condannò a morte chiunque ne avesse ucciso uno.

L’igiene pubblica di Edo e delle altre città precipitò ad infimo livello e successivamente furono promulgati altri i divieti: fu vietato uccidere animali da bosco e uccelli, furono confiscati tutti i fucili ai cacciatori e fu proibito l’allevamento e il commercio di pesci e tartarughe.

Alla morte di questo quinto Shogun i divieti furono aboliti e oltre 6.000 detenuti per reati contro gli animali furono rimessi in libertà.

Nel 1702 il Giappone riconobbe finalmente la responsabilità personale del reo: fino ad allora erano considerati colpevoli e puniti tutti i familiari di chi commetteva un reato, con eccezione dei samurai ai quali era concesso suicidarsi espiando così la colpa e garantendo continuità alla propria famiglia.

Nel 1720 venne permessa la circolazione di libri occidentali, purché a carattere non religioso, e fu permesso avvicinare gli olandesi ai quali era stato concesso di restare a Deshima (vicino a Nagasaki), a patto che non entrassero in contatto con la popolazione locale.

Il più grosso problema sociale dell’epoca fu la sistemazione dei ronin, ovvero dei samurai restati senza padrone che avrebbero potuto facilmente diventare un elemento destabilizzante per la società giapponese, dato il loro numero elevato: si stima che verso il 1650 vi fossero oltre 400.000 samurai allo sbando.

Il sistema sociale di suddivisione in classi non poteva permettersi di avere gruppi sociali al di fuori del rigido schema che comprendeva 1) la nobiltà suddivisa in civile (kuge) e militare (buke) della quale facevano parte i daimyo con rendite maggiori di 10.000 koku di riso e i samurai; 2) i contadini; 3) gli artigiani; 4) i commercianti; seguivano poi i fuoricasta: gli eta (che potevano solo esercitare mestieri impuri quali il macellaio, il conciatore, il boia) e gli hinin (= non uomini) che erano i mendicanti ai quali però era permesso, a differenza degli eta, coltivare la terra e commerciarne i prodotti.

Da un lato si rese difficile la vita ai ronin per invogliarli a trovar lavoro presso altri daimyo, dall’altro si invogliavano a “cambiar lavoro” lasciando loro la possibilità di insegnare, di dedicarsi alla medicina o alla vita religiosa.

È in questo periodo che nacquero numerose scuole di arti marziali.

La classe dei samurai acquistò molto prestigio in questi due secoli e mezzo di pace.

Venne limitato l’accesso alla classe samuraica; i mercanti o contadini, che eccezionalmente ottenevano il privilegio di accedere a tale classe, non avevano di norma il diritto di trasmetterlo agli eredi.

Si cercò di tenere la classe guerriera separata in posizione più elevata rispetto alle altre: il samurai portava un cognome e aveva il diritto/dovere di uccidere un semplice cittadino che gli avesse mancato di rispetto.

La seconda metà del XVIII secolo fu particolarmente dura per il Giappone.

Un’eruzione vulcanica provocò oltre 20.000 morti e probabilmente favorì delle insolite condizioni meteorologiche: a causa del freddo i raccolti andarono perduti e su intere regioni del Giappone calò la carestia.

Decine di migliaia di morti di fame, campi abbandonati, gente disperata, infanticidi, vendita di donne e bambini, episodi di cannibalismo, riempirono le cronache giapponesi fra il 1783 e il 1785.

Alle calamità naturali si aggiunsero ancora anni di cattivo raccolto (quello del 1785 fu inferiore di oltre il 60% rispetto a quello di un anno normale).

I prezzi del riso si innalzarono enormemente e la pressione fiscale divenne sempre più difficile da sostenere.

Le masse contadine e coloro che avevano dovuto abbandonare i campi assalirono le residenze dei ricchi e dei mercanti e spesso saccheggiarono addirittura intere cittadine: fra il 1782 e il 1790 si contarono 230 rivolte di una certa entità.

In tutto il periodo Edo (1600-1868) vi furono oltre 1.500 rivolte contadine documentate alla cui base vi erano sempre gli stessi motivi: tasse esorbitanti, debiti, carestie.

Infatti bersaglio delle rivolte erano i palazzi dei daimyo (esattori fiscali), i magazzini di riso dei mercanti e le case dei ricchi proprietari che di norma praticavano l’usura.

La fortuna di moltissime grandi aziende moderne risale a quei secoli: ai mercanti fu demandato dalla classe nobile e militare il compito di trattare merci e maneggiare denaro (considerato ignobile per l’aristocrazia militare), i daimyo finirono così per dipendere dai mercanti e i samurai di medio/basso rango erano costretti a ricorrere a prestiti dagli usurai poiché ricevevano spesso la paga irregolarmente.

Il teatro Kabuki

Una delle espressioni più tipiche della cultura popolare giapponese nell’Epoca Edo è il teatro Kabuki (i termini cinesi significano: ka=canzoni, bu=danza, ki=abilità; mentre il temine giapponese kabuku significa “avere un comportamento eccentrico”).

Questa forma di teatro trae origine probabilmente dalle danze popolari che si tenevano nei templi, finché nel 1603, secondo la tradizione, l’attrice Izumo Okuni costituì la prima compagnia teatrale femminile portando lo spettacolo danzante fra le strade di Kyoto.

Nel 1629 il Bakofu proibì il Kabuki delle donne sostenendo che fra il pubblico scoppiavano frequenti risse (anche perché il confine fra prostituzione e Kabuki non era ben marcato).

Le attrici furono così sostituite da adolescenti in abiti femminili, con conseguenze ancora peggiori fra il pubblico.

Il Bakofu proibì così ai giovani di interpretare parti femminili, furono così attori uomini a recitare tutte le parti teatrali.

Il Kabuki si diffuse rapidamente e incontrò il favore crescente del pubblico, il Bakofu, visti che i tentativi di reprimerlo erano stati vani, lo regolamentò con apposite licenze e sconsigliò ai samurai dal perdere tempo e denaro in inutili frivolezze, lasciando questa forma teatrale ad appannaggio delle classi popolari.

Ma uno scandalo che coinvolse nel 1714 la moglie dello Shogun e un famoso attore di Kabuki ci indica chiaramente come questa forma di teatro non fosse circoscritta alle sole classi popolari (per curiosità val la pena di ricordare che 1.500 persone del castello dello Shogun furono esiliate a causa di questo scandalo).

Nel XVIII secolo il teatro conobbe un’epoca di grande splendore: i grandi palcoscenici con ricchezza di scene e costumi richiamavano grandi folle di ogni classe sociale e numerosi artisti immortalavano nelle proprie opere le pose di artisti che si specializzavano in particolari personaggi.

Il XIX secolo

Agli inizi del XIX secolo la società giapponese appare in via di trasformazione: nei vari feudi vi sono scuole che provvedono all’istruzione dei samurai e nelle città incominciarono ad operare scuole private e piccole scuole (terakoya) dove anche gli abitanti delle città iniziarono ad avere un’istruzione scolastica: verso la fine del periodo Edo si stima che il 43% degli uomini e il 10% delle donne avessero una istruzione di base.

I pellegrinaggi e i viaggi in genere diventarono di moda: nel 1830 i Santuari di Ise furono visitati da oltre 5.000.000 di fedeli; nei pressi dei più celebri santuari sorsero bettole, locande e bordelli.

La produzione artistica di dipinti, scritti e stampe dà un quadro preciso della vita quotidiana giapponese dell’Ottocento, molto di più di quella dei secoli precedenti dove molto si conosce della vita dei nobili ma molto meno della vita quotidiana della classe popolare.

Edo era una città ricca di vita, lungo il fiume Sumida che attraversa la capitale si susseguivano sale da the, case di piacere e imbarcazioni ove era possibile trovare alcool, cibo e geishe.

In ogni città vi erano uno o più quartieri malvisti ma tollerati dalle autorità, in cui particolarmente fitte erano le bische e i bordelli.

Da un punto di vista economico il XIX secolo fu caratterizzato da una cattiva gestione dello stato: mentre le finanze statali andavano a rotoli e l’unica classe che si arricchiva era quella dei mercanti, i contadini e i prestatori d’opera subivano insieme ai samurai gli effetti di una crisi economica continua.

Il decennio 1830-40 vide numerose rivolte contadine, causate anche da carestie, una delle quali guidata addirittura da un magistrato di Osaka che tentò un assalto al Castello della città per impadronirsi dei viveri e distribuirli fra i contadini affamati.

I mezzi con cui lo stato affrontò la crisi economica furono inefficaci se non ridicoli: si cercò di cacciare dalle città i contadini che si erano trasferiti, si stampò carta moneta in eccesso, si costrinsero i mercanti a concedere ingenti prestiti allo Shogun e ai daimyo (restituibili in 250 anni!), nel 1841 si ridussero del 20% per legge prezzi e salari e si abolirono tutti gli intermediari fra produttori e consumatori con il risultato di far aumentare a dismisura il prezzo delle merci diventate introvabili.

L’arrivo degli occidentali

Come abbiamo già visto, gli unici contatti che il Giappone ebbe con l’estero furono quelli attraverso il porto di Nagasaki, l’unico abilitato ai contatti con gli stranieri, ove viveva, separata dal resto della città, una piccola comunità di olandesi.

Nel 1792 i russi chiesero di instaurare con il Giappone regolari rapporti comme5rciali attraverso le isole del nord, ma quando il daimyo di Hokkaido inoltrò la richiesta al governo centrale ottenne risposta negativa.

Nel 1808 una fregata inglese riuscì ad entrare nel porto di Nagasaki innalzando bandiera olandese e costringendo i giapponesi a rifornirla, il magistrato di Nagasaki poi si suicidò non essendo riuscito ad impedire questo affronto.

Altre due volte, nel 1819 e nel 1824, navi inglesi approdarono in Giappone e si scontrarono coi giapponesi.

Il divieto di avvicinarsi alle coste nipponiche era così forte che nel 1837 la nave Morrison, noleggiata da missionari americani con lo scopo di rimpatriare marinai giapponesi fu presa a cannonate non appena giunse a tiro dell’artiglieria costiera.

I più interessati ad una apertura del Giappone verso l’Occidente erano gli americani che volevano poter fare scalo in Giappone per vari motivi.

Innanzitutto, da quando nel 1848 la California era entrata nella Confederazione, la rotta più breve per l’Oriente era diventata quella attraverso il Pacifico, poi vi era il problema dei naufraghi americani che sbarcavano in Giappone dove ricevevano in genere pesanti maltrattamenti, infine il Giappone rientrava in quella sfera geopolitica di “interesse” per gli americani che giudicavano insopportabile la volontà giapponese di non entrare in contatto con il mondo civilizzato di cui loro si giudicavano i portatori.

I tentativi americani di avvicinarsi “pacificamente” alle coste giapponesi con le navi da guerra furono due: nel 1846 a Uraga (Tokyo) e nel 1849 a Nagasaki, ma non volendo forzare la situazione le navi non si ancorarono nei porti.

Si arrivò così all’8 luglio 1853 quando il Commodoro Matthew C. Perry risalì la baia di Uraga con quattro navi nere da guerra di cui due a vapore e ancorò nel porto di Tokyo chiedendo di consegnare una lettera del Presidente americano Fillmore al sovrano del Giappone.

Le autorità intimarono a Perry di trasferirsi nell’unico porto abilitato a trattare con gli stranieri, quello di Nagasaki, ma di fronte alla minaccia di Perry di cannoneggiare la città se non avesse potuto consegnare la lettera dovettero cedere e il 14 luglio Perry consegnò oltre alla lettera presidenziale una sua missiva in cui avvisava il governo nipponico che nella primavera del 1854 sarebbe tornato a ritirare la risposta con un seguito di navi da guerra ancor maggiore.

La presenza delle navi americane ancorate in un proprio porto dimostrò ai giapponesi quanto fossero inutili le difese costiere, vulnerabili le città e comunque come fosse possibile essere soggetti ad un blocco navale.

Dopo che Perry ripartì si scatenò in Giappone un contrasto senza precedenti su quale dovesse essere la condotta da seguire, iniziò così il periodo del bakumatsu (“fine del governo dello Shogun”) che durerà dal 1853 al 1868.

La sfida occidentale era considerata da un lato una minaccia inaccettabile alla sicurezza nazionale, dall’altro era sentita, specialmente dai politici meno legati ai militari, come un’occasione per riformare il Paese liberandosi da quell’onnipotente apparato burocratico che era il risultato finale di una dittatura militare che ormai, da oltre 250 anni dominava il Giappone.

Abe Masahiro, il capo del “Consiglio degli Anziani” che affiancava lo Shogun Iesada Tokugawa, compì una mossa senza precedenti nella storia giapponese: mandò una lettera a tutti i daimyo, compresi i Tozama, richiedendo il loro parere per presentare così un rapporto alla Corte imperiale.

Così la risoluzione di un problema politico, anziché essere decisa autorevolmente dal Bakofu e dai suoi consiglieri, diventò argomento di pubblica discussione.

Delle 50 risposte conservate negli Archivi di Stato, 34 richiedevano che la risposta a Perry fosse negativa (8 di queste chiedevano addirittura il ricorso ad una guerra preventiva contro l’Occidente), 14 raccomandavano un compromesso e solo 2 erano favorevoli ad una risposta positiva.

Dopo che Perry in febbraio si ripresentò con il doppio delle navi precedenti, e sulla base del totale dei pareri raccolti, che probabilmente assecondarono la linea politica di Masahiro Abe, fu firmato il 31 marzo 1854 il compromesso con gli americani (Trattato di Kanagawa).

Con questo Trattato vennero aperti due nuovi porti, Shimoda a sud e Hakodate a nord del Giappone, alle navi americane che poterono così ricevere acqua cibo e carbone, venne garantita la sicurezza ai marinai americani, e venne concessa l’apertura di un consolato americano a Shimoda.

Nel frattempo il Giappone ordinò nuove navi da guerra agli Olandesi e rafforzò le proprie difese costiere, nel 1855 fu fondata una scuola di addestramento navale con istruttori olandesi e un centro di addestramento militare a Edo in stile occidentale.

L’aumento delle spese militari e un fortissimo terremoto a Edo, in cui persero la vita anche alcuni importanti personalità politiche del Paese, aggravarono ulteriormente l’erario statale già in difficili condizioni.

La debolezza dello Shogun apparve evidente quando Abe richiese all’Imperatore di siglare i trattati mentre la normale prassi prevedeva che all’Imperatore fossero “comunicate” le decisioni dello Shogun.

L’Imperatore, rimesso così nel gioco politico, oltre a siglare i trattati, diede istruzioni allo Shogun affinché rafforzasse ulteriormente le difese costiere.

Abe fu costretto alle dimissioni pressato dalle critiche dei daimyo vicini al clan Tokugawa, contrari alla possibilità che veniva data ai daimyo di provincia di interferire sulle decisioni dello Stato.

Al suo posto fu eletto Masayoshi Hotta che convinse la maggior parte dei consiglieri e dei daimyo Fudai all’utilità di un nuovo trattato che allargasse le possibilità di contatto con l’estero.

La bozza di un trattato che prevedeva l’apertura di altri due porti, la libertà per gli stranieri di stabilirsi a Edo e Osaka e da li muoversi per 25 miglia, la libertà di culto per gli stranieri, l’extraterritorialità per gli stranieri non giudicabili quindi da un tribunale giapponese in caso di reato, tariffe doganali del 5% sulle merci straniere introdotte in Giappone, fu inviata da Hotta ai daimyo e i pareri favorevoli furono molto maggiori di quelli del 1853.

Quando però le clausole furono di pubblico dominio si scatenò una feroce opposizione a capo della quale si levò il daimyo Mito Nariaki.

Hotta si recò dall’Imperatore per ottenere la firma ma questi, premuto dai tradizionalisti e dagli avversari dello Shogunato, si rifiutò, scatenando una gravissima crisi politica.

A ciò si aggiunse la morte dello Shogun che non lasciando eredi diretti apriva un delicato problema di successione.

Il precipitare degli avvenimenti portò alla frettolosa nomina di Ii Naosuke a Gran Consigliere con il mandato di riportare ordine fra le fazioni in lotta per la successione allo Shogunato.

Naosuke, aperto riformista, firmò con il console americano il trattato preparato da Hotta, siglò altri trattati con Gran Bretagna, Russia, Olanda, Francia, Prussia e Portogallo, risolse la controversia sullo Shogunato facendo eleggere Yoshitomi Tokugawa.

Quando l’Imperatore rifiutò di sottoscrivere gli accordi impartendo l’ordine di “cacciare gli stranieri non appena possibile”, Naosuke scatenò una forte repressione facendo giustiziare un centinaio di esponenti non di primo piano dell’opposizione, mettendo agli arresti domiciliari nelle loro tenute numerosi daimyo fra cui Mito Nariaki, cercando così di risollevare il prestigio dello Shogunato.

Ii Naosuke verrà assassinato nel 1860 da samurai fedeli a Mito che volevano vendicarne la morte avvenuta prigioniero in casa propria pochi mesi prima.

Si scatenò così in tutto il Paese la lotta fra le due fazioni: quella favorevole all’Imperatore, sovrano per diritto divino, che voleva “cacciare i barbari stranieri” e quella favorevole allo Shogun, che aveva ricevuto secoli prima la delega a governare il Paese, che voleva aprirsi agli stranieri.

La fazione favorevole all’Imperatore era costituita perlopiù da samurai di rango medio-basso animati da un patriottismo e nazionalismo esasperato.

Questi scatenarono fra il 1860 ed il 1863 un’ondata di attentati uccidendo vari funzionari shogunali e qualche decina di stranieri.

Le nazioni europee, con il chiaro intento di obbligare il Giappone a tener fede ai Trattati, compirono rappresaglie per l’uccisione dei loro concittadini: nel 1863 la flotta inglese bombardò Kagoshima provocando vari incendi, nel 1864 una flotta composta da navi di quattro nazioni europee bombardò il forte di Shimonoseki da dove l’anno prima cannoni giapponesi avevano sparato contro navi europee.

Queste due forti risposte europee provocarono dei mutamenti all’interno delle fazioni rivali, nel novembre 1865 quando una flotta da guerra si presentò a Kobe, vicino a Kyoto sede imperiale, l’Imperatore si affrettò a ratificare i Trattati a cui si era strenuamente opposto in precedenza.

Questo spiazzò completamente i sostenitori del Sovrano che non potevano più opporsi agli stranieri nel nome dell’Imperatore, molti si dettero ad azioni terroristiche ma ancor di più diventarono rapidamente fervidi sostenitori dell’ “apertura d’occidente”.

Il ritorno sulla scena politica dell’Imperatore e l’alleanza fra molti daimyo, che vedevano la possibilità, ridando autorità all’Imperatore, di assestare un definitivo colpo ai Tokugawa, portò rapidamente all’epilogo dello Shogunato.

Nel 1866 scontri armati contrapposero i daimyo anti-Tokugawa agli eserciti dello Shogun che vennero sconfitti.

Nel 1867 Yoshinobu Tokugawa accettava di dimettersi restituendo le sue prerogative all’Imperatore mantenendo però la carica di Primo Ministro.

Ma i daimyo più radicali non accettarono questo compromesso ed il 3 gennaio 1868 le loro truppe si impadronirono del palazzo imperiale, costituirono un governo provvisorio che come primo atto confiscò le terre ai Tokugawa, e restituirono i pieni poteri all’Imperatore Matsuhito, appena quindicenne in carica da appena un anno.

È questa la cosiddetta restaurazione Meiji.

A nulla valse il tentativo dei Tokugawa di opporsi militarmente il 30 gennaio 1868: la battaglia di Toba-Fushimi fu una sorta di rivincita di quella di Sekigahara e come allora i tradimenti pianificati e messi in atto al momento della battaglia influirono in modo decisivo sulle sorti dello scontro.

La resistenza dei Tokugawa continuò spostandosi via via più a nord e terminò nel maggio 1869 quando la flotta Tokugawa, rifugiata a Hokkaido, si arrese definitivamente.

Il periodo Meiji (1868-1912)

La restaurazione del potere imperiale, passata alla storia come Restaurazione Meiji provocò degli sconvolgimenti politico amministrativi e di costume che in pochi anni muteranno la fisionomia del Giappone.

Il 6 aprile 1868 venne proclamato, a nome dell’Imperatore, una sorta di statuto dei “Cinque Principi” elaborato dalla cerchia dei politici che reggevano le sorti del Paese, ovvero da una quarantina di giovani 30/40enni provenienti dalle fila dei samurai anti-Tokugawa di notevole cultura con rapide carriere alle spalle e con elevate capacità di analisi sui problemi nazionali ed internazionali.

Questi “Cinque Principi”, nati come un temporaneo palliativo ai dubbi dei daimyo, diventeranno poi la pietra miliare della volontà di democratizzare le istituzioni giapponesi e verranno ricordate da Hirohito all’indomani della disfatta del 1945 quando il Giappone era da ricostruire moralmente ed economicamente.

Questi “Cinque Principi”, sufficientemente vaghi per andare sempre e comunque bene contenevano molte promesse senza specificare in realtà quasi nulla:

  1. Si istituiranno ovunque assemblee deliberanti e tutte le questioni saranno decise mediante pubblico dibattito.

  2. Tutte le classi, alte e basse, collaboreranno ad amministrare con vigore la cosa pubblica.

  3. Tanto la gente comune quanto i burocrati e i militari avranno la possibilità di seguire le proprie vocazioni in modo che non vi sia scontento.

  4. Le cattive usanze del passato saranno abbandonate e tutto sarà fondato sulle giuste leggi di natura.

  5. Per rafforzare le fondamenta del governo imperiale si attingeranno a conoscenze di tutto il mondo.

Il risultato più duraturo della restaurazione Meiji sarà quello nel campo delle riforme politico-amminsitrative.

Il primo passo verso la centralizzazione fu chiaramente quello di restituire un potere reale all’Imperatore che evitasse il perdurare di un sistema para-feudale in un mondo in cui i vari Stati avevano ormai raggiunto un’identità nazionale da vari decenni se non da secoli.

La scelta della “capitale nazionale” (To-kyo) nella vecchia città di Edo con il trasferimento nel 1869 della residenza imperiale da Kyoto a Tokyo, e quella di “Meiji” (Governo illuminato) per designare il periodo che si apriva furono chiari sintomi del processo in corso di centralizzazione nazionale favorito anche dalla presenza, considerata comunque come una minaccia, di guarnigioni straniere nei porti franchi giapponesi.

Lo Shintoismo divenne religione ufficiale di Stato e contribuì a rafforzare la figura del giovane Imperatore Matsuhito considerato di origine divina.

Nel luglio 1869 i daimyo furono nominati governatori delle terre su cui sorgeva il loro feudo e potevano trattenersi il 10% delle vendite delle terre, in cambio il governo centrale si faceva carico dei loro debiti.

Più tardi i feudi verranno ufficialmente aboliti e lo Stato si farà carico degli stipendi dei samurai degli ex daimyo.

Nel 1870 si permise ai cittadini di assumere un cognome, nel 1871 fu reso facoltativo e non più obbligatorio ai samurai il dover portare la spada con se.

La classe dei samurai era comunque fortemente indebolita: il senso stesso della loro motivazione di esistere come classe volgeva al termine, i migliori di loro si erano ormai inseriti nell’apparato burocratico-decisionale, moltissimi sovraffollavano invece le amministrazioni senza che vi fosse una reale necessità del loro impiego, i redditi dei samurai derivavano dalle imposte che lo stato doveva esigere dalle classi produttive ma l’imposizione fiscale frenava il Paese in rapida crescita e con grandi opportunità, infine dalle altre classi stavano sorgendo uomini istruiti, intraprendenti e indipendenti che erano destinati a soppiantare questa vecchia classe militare.

Non va dimenticato inoltre l’esempio straniero, dove a fianco di truppe specializzate formate da professionisti vi era un esercito di leva, il Giappone volle così passare da “una nazione difesa dai Samurai” ad “una nazione di Samurai” e dal 1873 entrò in vigore la legge sulla coscrizione obbligatoria (erano esentati i primogeniti) e nel 1876 fu vietato ai samurai il porto della spada: ciò che da secoli era un obbligo diventò in pochi anni un reato!

Le rendite dei samurai, già fortemente calate in precedenza, vennero commutate per legge in Buoni del Tesoro fruttiferi in modo da sgravare le finanze dello stato. Ad aggravare le insoddisfazioni dei samurai contribuì la rinuncia alla guerra contro la Corea.

Il nuovo governo Meiji inviò in Corea una missione per cancellare i vecchi accordi fra la Corea e il daimyato di Tsushima (che commerciava con la Corea) e instaurare regolari rapporti diplomatici da Stato a Stato.

Di fronte alla negativa e sprezzante risposta coreana i samurai al governo sollecitarono una guerra che avrebbe risolto tra l’altro il problema dell’inutilità sociale di questa classe in questo periodo di grande mutamento.

Uno dei generali che maggiormente aveva contribuito alla restaurazione del potere imperiale, Saigo Takamori, si offrì per andare in Corea in modo che se lo avessero ucciso o anche solo respinto, il Giappone avrebbe avuto un motivo valido per attaccare.

Nel contempo tornò in patria la missione Iwakura, composta da un centinaio di funzionari ad altissimo livello, ambasciatori e uomini dei vari ministeri che aveva viaggiato per ventuno mesi nelle principali capitali e città europee ed americane con lo scopo di relazionare al ritorno sui sistemi (industriali, scolastici, dei trasporti, giuridici, ecc.) di tutti i Paesi occidentali per così copiare quanto di meglio vi era al mondo.

L’importanza che il governo attribuì a questa missione era enorme: si può quasi affermare che l’élite di governo andò all’estero lasciando in patria un governo d’affari. Questa missione riferì sul divario militare tra il Giappone e le nazioni europee che avrebbero facilmente approfittato di una guerra nippo-coreana per rafforzarsi in quella zona. Anche se a fatica prevalse questa tesi e gli interventisti si dimisero dal governo.

Il senso di frustrazione, l’insoddisfazione personale, la perdita di un’identità di classe e la coscienza di un’ineluttabile fine spinse i samurai alla sommossa.

Preceduta da parecchie rivolte di samurai guidate dagli interventisti si giunse nel 1877 alla rivolta di Satsuma : un esercito di samurai, guidati da Saigo Takamori, senza armi da fuoco per non venir meno alla fede nella katana, affronteranno sei mesi di aspri scontri con l’esercito regolare imperiale, composto da 40.000 soldati e reclute provenienti da classi non-samurai e nonostante il coraggio verranno sconfitti.

Saigo Takamori si toglierà la vita e verrà riabilitato in seguito diventando un eroe del militarismo e nazionalismo giapponese.

Con la rivolta di Satsuma in cui un esercito di leva aveva sconfitto i samurai si concluse definitivamente l’epopea dei samurai che dal 1185 (quando vennero meno alla loro missione di servitori di un potere politico per prendere direttamente il potere) al 1868 ebbero un ruolo senza eguale in nessun’altra parte del mondo.

La tradizione dei samurai rimarrà viva nello spirito giapponese soprattutto come capacità di servire un superiore a costo della propria vita.

Nel 1872 vi fu la riforma dell’istruzione scolastica.

Vennero creati 8 distretti universitari e 32 di Scuole Medie con 210 Scuole elementari ciascuno.

L’ordinamento sull’istruzione così iniziava: “L’istruzione è la chiave di successo nella vita e nessuno può permettersi di trascurarla. (...) Tutti di propria iniziativa subordineranno ogni cosa all’istruzione dei figli.

Lo sforzo fu enorme e il dibattito nel Paese durò a lungo, le classi povere si lamentarono per le tasse scolastiche, i conservatori per i testi troppo progressisti, ma la riforma andò avanti nonostante il Ministro per l’Istruzione venne assassinato da elementi reazionari.

Obbiettivo del nuovo sistema di istruzione era formare una classe di cittadini disciplinati e motivati tramite una scolarizzazione elementare di massa sul modello delle più evolute nazioni occidentali, lasciando la massima libertà solo alle Università per far competere il Giappone con il resto del mondo.

Nei primi anni del 1900 tutti i bambini frequentavano le scuole elementari su libri di testo unificati su scala nazionale dove moralità, patriottismo e fedeltà erano fra i perni dell’educazione e le strutture scolastiche esaltavano comunque le virtù militari.

Il motto fuko-ku-kyo hei (“nazione ricca, esercito forte”) fu uno dei cardini del sistema giapponese che guardando ad Occidente ne importò in poco più di un decennio tutte le idee e le tecnologie giudicate utili.

Il governo giapponese sulla base del lavoro svolto dalla missione Iwakura copiò in modo selettivo il modus operandi europeo: dalla Prussia e dall’Impero Austro-ungarico copiò le istituzioni politiche, dalla Francia il sistema scolastico centralizzato, dalla Gran Bretagna il sistema di relazioni industriali, dagli U.S.A. la capacità e la tecnologia necessaria per civilizzare nuove terre (un Commissario Governativo statunitense, Horace Capron, andò in Giappone per collaborare al piano di sviluppo per l’isola di Hokkaido).

Il Giappone voleva così dimostrare di non essere secondo a nessuna nazione evoluta, ed ottenere considerazione dal consesso internazionale.

Vennero rivisti tutti i trattati internazionali, gli uomini più preparati vennero impiegati nella diplomazia che fu sostenuta con tutte le risorse necessarie, non ultima quella di un esercito ed una flotta in rapida ricostituzione, spesso mandata a sostenere con navi da guerra la ratifica di trattati così come solo pochi anni prima il Giappone aveva dovuto subire dagli U.S.A.

Il mondo fu colpito dalla sorprendente facilità con cui il Giappone vinse la guerra con la Cina nel 1894-95, dall’abilità giapponese nel copiare la tecnologia militare occidentale e dal “coraggio, eroismo e autocontrollo” dimostrato dalle truppe giapponesi.

Nel 1904 il Giappone attaccò la Russia e dopo due anni ottenne anche questa seconda importante vittoria militare.

Lo sforzo industriale giapponese fu pari se non superiore a quello militare: nel 1903 il Giappone diventò il primo Paese al mondo per l’export di seta e meccanizzando la filatura del cotone promosse questa industria che riuscì ad occupare la manodopera eccedente delle campagne.

Nel giro di pochi decenni le esportazioni giapponesi, costituite nel 1880 in maggioranza da the, riso e seta grezza, diventeranno prevalentemente di prodotti finiti lavorati industrialmente.

Il Periodo Taisho (1912-1926)

A Tokyo, Osaka, Yokohama iniziarono ad aprirsi industrie pesanti e grandi concentrazioni industriali-finanziarie- commerciali integrate, nel 1913 le 52 imprese maggiori del Paese detenevano il 38% del capitale nazionale.

L’espansione commerciale giapponese conobbe un fortissimo momento di crescita nel periodo della prima guerra mondiale, quando approfittando della debolezza delle nazioni europee quadruplicò nel giro di pochi anni il proprio volume d’affari consolidando la propria posizione sui mercati dell’Oriente e del Pacifico.

La Prima guerra mondiale fu definita dal Giappone “guerra civile europea” nonostante il 20 agosto 1914 il Giappone avesse dichiarato guerra alla Germania per togliere ai tedeschi alcune colonie.

Così alcuni porti in Cina, le isole Marianne e Marshall, la Corea, le isole Ryukyu, le Curili, la parte meridionale dell’isola di Sachalin e alcune regioni della Manciuria divennero in pochi anni possedimenti giapponesi.

Alla Conferenza di Versailles mentre il Giappone ottenne la conferma delle nuove conquiste territoriali fu respinta la richiesta nipponica di “uguaglianza razziale”, le atre potenze si rifiutarono di firmare dopo mesi di discussione, una risoluzione giapponese che impegnava i firmatari ad abolire ogni discriminazione razziale.

Si opposero in particolare gli U.S.A., il Canada e l’Australia che volevano aumentare le restrizioni all’immigrazione asiatica (nel 1924 gli U.S.A. emaneranno una legge che impedirà ai giapponesi di poter diventare cittadini americani).

Nel 1919 in Corea il Giappone represse nel sangue manifestazioni indipendentiste coreane, si parla di 15.000 coreani uccisi, e nello stesso periodo anche all’interno del Paese scoppiarono dei gravi tumulti, detti “tumulti del riso”, generati inizialmente dal timore che l’intervento giapponese in Siberia (70.000 soldati inviati nell’estate 1918) facesse aumentare il prezzo del riso.

Oltre 1.000.000 di operai e contadini scioperarono e portarono avanti dure lotte per oltre un anno, il governo proclamò la legge marziale e con numerose condanne a morte e 7.000 ergastoli riportò un’apparente calma nel Paese.

Il 1 settembre 1923 uno spaventoso terremoto distrusse la metà di Tokyo e Yokohama, i morti furono oltre 120.000 ai quali vanno purtroppo aggiunti 5.000 coreani assassinati in pochi giorni e numerosi sindacalisti, comunisti e anarchici assassinati spesso con tutta la famiglia nella confusione generata dallo “stato di assedio” proclamato dal governo all’indomani del terremoto e dalla libertà concessa alle “forze dell’ordine” e alle “squadre di vigilanza” che si scatenarono contro gli strati più deboli e i “diversi” (coreani) ritenuti colpevoli di complotti inesistenti se non addirittura del terremoto.

L’economia del Paese subì un duro colpo dal sisma del 1923, le spese per la ricostruzione di Tokyo con criteri moderni furono pari a tre volte il Prodotto Interno annuo.

Il Periodo Showa (1926-1989)

Nel 1926 sale al trono l’Imperatore Hirohito.

La crisi mondiale del 1929 con la conseguente cessazione della domanda estera di seta giapponese fece piombare il Giappone in una crisi senza precedenti, il numero dei disoccupati crebbe enormemente, molti contadini erano in miseria, l’emigrazione era resa impossibile dalla chiusura delle frontiere americane e australiane.

Nel 1928 si tennero le prime elezioni nella storia giapponese a suffragio universale maschile dopo che però erano stati dichiarati fuori legge i partiti della sinistra e sciolti i sindacati.

Nel 1927 intanto le forze armate giapponesi avevano stabilito di togliere alla Cina tutta la Manciuria, la regione nord-orientale della Cina vasta più dell’intero Giappone, molto fertile e relativamente poco abitata nonché ricca di materie prime.

Le Forze Armate giapponesi, già da tempo si erano rese autonome dal governo e anzi ne influenzavano le scelte, infatti già dal 1900 il Ministro della Marina e quello della Guerra (modo di allora di denominare il Ministro della Difesa) potevano per legge essere solo ammiragli o generali indicati dagli Stati Maggiori.

Il 4 giugno 1928 il treno su cui viaggiava il principale esponente manciuriano saltò in aria e, nonostante l’Imperatore Hirohito chiese al governo di punire i responsabili, chiaramente da ricercarsi nelle gerarchie militari giapponesi, gli alti gradi dell’esercito lo impedirono.

Nel 1931 un attentato contro le linee ferroviarie della Manciuria meridionale (che era giapponese) fornì l’occasione al Giappone per attaccare in forza dando la colpa di questo attentato ai cinesi (è stato scoperto decenni dopo che l’attentato fu organizzato dall’esercito giapponese stesso).

In pochi mesi la Manciuria fu completamente occupata.

Nel 1932 il Giappone si ritirò dalla Società delle Nazioni.

Nel 1934 con la “dichiarazione Amau” il Giappone rivendicò il proprio diritto ad intervenire in Cina e in tutto l’Estremo Oriente per mantenervi l’ordine senza che altre potenze potessero opporsi.

Nel 1936 Germania e Giappone firmarono un Patto d’alleanza.

Il 7 luglio 1937 il Giappone aprì le ostilità con la Cina e in pochi mesi conquistarono Pechino e Nanchino dove si abbandonarono a raccapriccianti massacri.

Gli sforzi bellici giapponesi ebbero grandi ripercussioni anche all’interno del Paese: dal 1939 i generi alimentari vennero razionati, oltre 1.500.000 uomini erano impegnati in Cina e nelle campagne si iniziava a sentire la mancanza di manodopera contadina anche perché vi era stata una massiccia precettazione di contadini inviati a lavorare nelle industrie belliche.

Solo le grandi concentrazioni industriali, le cui maggiori erano la Mitsubishi e la Mitsui, si arricchirono enormemente con le commesse militari.

Anche in politica interna iniziò lo strapotere dei militari e un periodo di totalitarismo, nonostante a capo del governo venisse nominato nel 1937 un civile, Konoe Fumimaro (dell'antica famiglia dei Fujiwara), dopo che la carica di premier era stata in mano ai militari dal 1932 al 1937.

Il Giappone si trasformò in un'immensa macchina da guerra, furono sciolti tutti i sindacati e i partiti, furono nominati dei militari nei posti chiave del potere, il Ministero per l'Educazione fu affidato ad un generale, e si sprecarono i richiami al patriottismo e alla lealtà verso l'Imperatore, fu imposto un rigido controllo sulla stampa e instaurato un vero e proprio stato di polizia.

Alla fine degli anni trenta, il Giappone iniziò la sua penetrazione nel Pacifico occupando l'Indocina settentrionale francese, l'Indocina meridionale, le Indie olandesi e la Malesia inglese.

Quest'espansione giapponese nel Pacifico provocò la reazione degli USA, della Gran Bretagna e degli altri Paesi occidentali che decretarono un embargo per tutte le merci strategiche destinate al Giappone; gli USA bloccarono anche tutti i crediti giapponesi nel loro Paese.

Il Giappone si trovò così privato del 60% dei prodotti siderurgici di cui necessitava e dell'80% del petrolio occorrente.

I tentativi di accordo per rimuovere almeno l'embargo sul petrolio fallirono e la tensione fra USA e Giappone crebbe.

Il 6 settembre 1941 il Consiglio di Governo, riunito alla presenza dell'Imperatore Hirohito decise di muovere guerra agli USA se entro 30 giorni non fosse stato tolto l'embargo.

Il 18 ottobre Konoe lasciò il posto al ministro della guerra, generale Ijeki Tojo che assunse così anche la carica di Primo Ministro.

Il 26 novembre 1941 gli USA ribadirono le loro condizioni (ritiro immediato del Giappone dalla Cina e dall'Indocina) e anzi ne aggiunsero un'altra: il ritiro giapponese dal Patto Tripartito (Roma-Berlino-Tokyo).

Il 1° dicembre 1941 il Giappone prese la decisione definitiva ed il 7 dicembre fu bombardata Pearl Harbour, la principale base americana nelle Hawaii dove gli USA persero oltre 200 aerei e 5 corazzate, e fu attaccata la base inglese di Kota Bharu in Malesia.

Si aprì così la guerra fra il Giappone e gli USA che vantavano un potenziale bellico-industriale 20 volte superiore a quello nipponico.

Dopo i primi sei mesi favorevoli al Giappone che si espanse in misura impressionante nel Pacifico, disperdendo però la propria truppa in un'area vastissima, gli USA iniziarono a contrastare efficacemente l'esercito e la marina nipponica ed in tutti i Paesi aggrediti si svilupparono forme di resistenza nazionale che impegnarono le truppe giapponesi.

Nel 1944 gli USA riconquistarono le Filippine interrompendo così i collegamenti fra il Giappone e le proprie truppe dislocate nei mari del sud.

Negli ultimi mesi del 1944 le città giapponesi iniziarono ad essere pesantemente bombardate dall'aviazione statunitense e nella sola primavera 1945 Tokyo ebbe oltre 10.000 morti tra i civili.

Aspre battaglie vi furono nelle isole Ryukyu ed in quella di Okinawa, dove perirono 100.000 soldati giapponesi, 50.000 americani e oltre il 10% della popolazione di quelle isole.

Il 20 giugno 1945 l'Imperatore Hirohito convocò il Consiglio Supremo e lo incaricò di trovare una soluzione per porre fine alla guerra.

Il 26 luglio USA, Gran Bretagna e URSS lanciarono al Giappone un ultimatum: resa senza condizioni e accettazione dell'occupazione alleata.

Il 6 agosto la bomba atomica distrusse Hiroshima ed il 9 fu la volta di Nagasaki: 300.000 morti nelle due città.

Ottenuta un'ambigua assicurazione dagli U.S.A. sul fatto che l'Imperatore sarebbe restato sul trono, il Giappone si arrese e l'Imperatore Hirohito registrò un messaggio alla radio che venne diffuso nonostante il tentativo di gruppi di militari oltranzisti di impedirlo.

Così il 15 agosto 1945 il popolo giapponese udì per la prima volta la voce del proprio Imperatore che al termine di un drammatico discorso concluse con la frase "Per il bene di tutte le generazioni future abbiamo risolto di spianare la strada ad una grande pace, sopportando ciò che non si può sopportare, soffrendo ciò che non si può soffrire".

Lo scenario al termine della guerra era impressionante: 3.000.000 di morti, di cui 1/3 civili, 9.000.000 di senzatetto, le maggiori città distrutte al 40% (risparmiate solo le città storiche di Nara e Kyoto), lo yen con un valore 100 volte inferiore a quello di pochi anni prima.

Iniziava il lento processo di ricostruzione materiale e morale del Paese facilitato dall'occupazione americana con a capo il generale Mac Arthur che impose drastiche riforme in campo sociale ed economico.

Fu innanzitutto ridimensionata la figura dell'Imperatore abolendo l'insegnamento dello shintoismo nelle scuole e togliendo ogni sussidio statale ai santuari shintoisti, ed ottenendo una pubblica dichiarazione dell'Imperatore che ripudiava l'origine divina del Giappone e quindi la superiorità di questo rispetto agli altri Paesi del mondo.

Fu introdotto il parlamentarismo (il governo non doveva più rispondere all'Imperatore ma al Parlamento), sciolte tutte le organizzazioni militari e nazionaliste ed inserito nella nuova Costituzione un obbligo al pacifismo perpetuo ("Non saranno più mantenute forze terrestri, navali o aeree o altro potenziale bellico" art. 9 Costituzione giapponese).

L'epurazione nei posti di lavoro colpì invece ben poco, solo 9.000 persone in tutto il Paese furono licenziate per l'attività svolta nel periodo di guerra, 1.200 ufficiale vennero messi sotto processo, furono emesse 174 condanne a morte ma solo 7 furono eseguite (fra cui quella del generale Tojo).

Il sistema scolastico fu rifatto copiandolo da quello statunitense, i libri di testo completamente rivisti.

Furono espropriate le terre pagandole ai latifondisti ai prezzi del 1939 (ovvero l'1% del valore reale del 1946) e vendute ai contadini con mutui trentennali al 3,2% di tasso di interesse.

In questo modo il 75% delle terre passarono dai grandi proprietari agli ex-affittuari, e il restante 25% fu dato in affitto ai coltivatori stabilendo un canone massimo pari al 15% del raccolto (25% per i terreni coltivati a riso).

Per comprendere appieno gli effetti di questa riforma agraria bisogna ricordare che il canone di affitto delle terre era fino al 1940 pari al 55% del raccolto.

Mac Arthur non riuscì invece ad imporsi sul terreno delle riforme in campo economico-industriale: le colossali concentrazioni economico-finanziarie che si erano arricchite ulteriormente con la guerra riuscirono ad eludere i vari tentativi volti alla loro soppressione o frammentazione.

Il 28 marzo 1952 il Giappone riacquistò infine la piena sovranità.

Dal 1955 ad oggi, alla guida politica del Paese vi è lo stesso partito, il liberaldemocratico, che ottiene di norma la maggioranza assoluta nelle elezioni, favorito anche dal sistema uninominale, o che si allea con partiti minori a lui vicino.

I gruppi economici sottoscrivono altissime somme per i partiti (finanziamenti ammessi dalla legge), le grandi imprese appoggiano apertamente il partito liberaldemocratico e la dedizione dei lavoratori all'azienda fa sì che molti sostengano politicamente quanto l'azienda suggerisce.

Altro tradizionale serbatoio di voti è la campagna, dove il partito liberaldemocratico protegge gli interessi dei coltivatori tramite un rigido protezionismo che innalza i prezzi dei prodotti importati.

Non da trascurare è infine l' "onda lunga" del feudalesimo, ovvero quella mentalità ancora molto forte per cui l'elettore fa una sorta di patto con l'eletto e difficilmente non gli resterà fedele, in cambio il rapporto dell'eletto con la base è molto più "protettivo" di quello delle democrazie occidentali.

L'occupazione del potere da parte dello stesso partito per un periodo così lungo ha portato inevitabilmente a crisi interne, spesso causate da scandali che travolgono i vertici del partito, ma che nella più fedele tradizione giapponese si risolveranno sia nel 1974 (scandalo che travolse il primo ministro Tanaka), sia nel 1989 in cui fu messo sotto accusa l'operato del primo ministro Takeshita, con il suicidio di due stretti collaboratori dei ministri sollevandoli così da ogni responsabilità diretta.

Il Periodo Heisei (1989-...)

Le tendenze conservatrici della società giapponese sono anche alimentate dalla tradizione imperiale.

Alla morte di Hirohito (unico caso al mondo di Capo di Stato sconfitto nella seconda guerra mondiale che sia restato ancora in carica) nel gennaio 1989, riti shintoisti hanno accompagnato l'ascesa al trono del principe Akihito, 125° Imperatore del Giappone, diventato dopo questi antichi riti se non divino in ogni modo "sacro" (come citavano le agenzie di stampa nipponiche).

La nuova era è stata battezzata "Heisei" (compimento della pace) e l'Imperatore sta tornando lentamente ad incarnarelo spirito della nazione; non è casuale che il sindaco di Nagasaki è stato espulso dal partito dopo avere affermato che Hirohito era in qualche modo responsabile dell'inizio della seconda guerra mondiale.

Per quanto riguarda la ricostituzione delle forze armate, il dettato costituzionale che prevede il divieto di riarmare un esercito fu aggirato con l'espediente della "Forza di Autodifesa" per le quali il Giappone può costituzionalmente investire non più dell'1% del Prodotto Nazionale Lordo.

Ma essendo il PNL giapponese ad altissimi livelli, lo sono stati di conseguenza anche le spese militari (40.000 miliardi di lire nel 1990).

Da un punto di vista economico lo sviluppo giapponese è stato sorprendente: il tasso medio di crescita è stato dal 1953 al 1973 mediamente del 10% annuo, per poi calare dal 1973 al 1990 al 3-4% annuo (contro il 2% di USA e Europa).

Il P.I.L. è sestuplicato dal 1960 al 1990, mentre in USA e Europa è poco più che raddoppiato.

In questa crescita economica hanno giocato un ruolo importantissimo i retaggi del vecchio sistema feudale: il sistema giapponese si basa su grosse concentrazioni economico-finanziarie composte da 4 o 5 grandi Società (ad esempio una banca, una compagnia di assicurazioni, una società commerciale, un gigante dell'industria elettronica) in cui ognuna di queste controlla una decina di Società inferiori; ciascuna di queste ha il controllo a sua volta di innumerevoli Società minori che a loro volta controllano delle aziende di dimensioni inferiori.

All'interno di questo gruppo è fatto divieto ad una Società di livello inferiore di utilizzare beni o servizi prodotti da altre Società che non siano quelle di un livello superiore del Gruppo di cui fanno parte, così come le Società superiori si impegnano ad utilizzare beni o servizi prodotti dalle Società di rango inferiore se disponibili.

A ciò si aggiunge il cosiddetto "familismo aziendale", ovvero il fenomeno per cui il dipendente vede nell'azienda una sorta di seconda famiglia e l'azienda lo ripaga permettendogli una protezione totale.

Queste gigantesche concentrazioni economico-finanziarie altro non sono che l'aggiornamento in senso moderno dei feudi dominati dai vecchi daimyo, nei quali i samurai e i contadini dedicavano la vita al servizio del padrone.

Non a caso i sindacati giapponesi non hanno quasi mai contrastato il padronato, né i lavoratori giapponesi hanno sentito il bisogno di un sindacato che tutelasse i loro interessi nei confronti di un'azienda che comunque offre loro protezione e gratificazione.

In cambio l'azienda ottiene una collaborazione e una dedizione dei dipendenti che ne esaltano la produttività: ad esempio l'assemblaggio di un'autovettura richiede in Giappone 19 ore lavorative contro le 36 ore impiegate in Europa.

Né va dimenticato la forte spesa per la ricerca (fino al 25% del P.I.L.) che ha portato il Giappone ad essere il Paese tecnologicamente più avanzato al mondo.

Lo sviluppo economico giapponese ha trascinato quello di altri Paesi asiatici, la cui economia è entrata in uno "sviluppo dinamico", con altissimi tassi di incremento annuo.

Da non trascurare infine l'espandersi in dimensione sovranazionali dell'industria giapponese che ormai, oltre ad essere all'avanguardia nel mondo in numerosi settori, possiede pacchetti azionari di molte fra le principali aziende statunitensi ed europee.

L'obiettivo della Restaurazione Meiji del secolo scorso, cioè "raggiungere l'Occidente e superare le nazioni del mondo", è stato ora raggiunto.

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